Roma, 24 aprile – L’attesa del pubblico del Teatro dell’Opera di Roma era tutta per quell’insolita accoppiata: un regista creativo e spesso ri-creativo come Damiano Michieletto e le tre opere in un atto firmate da Giacomo Puccini.
Sì, il Trittico, che non è mai del tutto decollato nel gradimento del pubblico. Tre opere complesse accomunate dal senso della morte declinato in vari angoli prospettici. Nella prima stazione, “Il Tabarro”, la morte soddisfa le sue attese liberando il demone della gelosia, armando la mano di padron Michele e raccogliendo la messe dei muscoli fiorenti di giovinezza di Luigi. Nella seconda stazione, “Suor Angelica”, la morte trionfa sulla disperazione di una madre costretta a rinunziare alla propria creatura e a vivere in un ambiente alienante e ostile dove tutto è connotato dall’obbligo alla penitenza. Il suicidio della suora è un incontro violento fra la morte e la sua sconfitta, perché la morte diventa liberazione dal peso del dolore. Nella terza stazione “Gianni Schicchi”, la morte è gabbata e irrisa dalla trovata diabolica del furbo contadino.
Sulle banchine di un porto fluviale poco lontano da Parigi, Giorgetta si riveste della voce e della fisicità di Patricia Racette, artista di levatura mondiale, regina del Metropolitan, apprezzata e fine interprete anzitutto, nel senso totale del termine, la voce morbida, ricca di armonici, dal colore lirico intenso si cala perfettamente nella parte di una donna inebriata d’amore, sentimento totale che annulla ogni memoria e lenisce il dolore del ricordo di quel bimbo morto che aveva creato una cesura col marito. (l’idea della maternità, simboleggiata da un paio di scarpine da neonato, è il leit motive che accomuna le tre opere). Vestita con un abituccio a fiorellini rosa – i costumi sempre appropriati sono di Carla Teti -, vive la sua vicenda, reginetta degli scaricatori, che tratta con umanità sempre. Luigi, il suo testosteronico innamorato, vive dei muscoli di Maxim Aksenov, tenore russo drammatico, secondo la vecchia classificazione, che giovanissimo è entrato a far parte del prestigioso Teatro Mariinskij. Lui sonda il ruolo con un allure cinematografico, dando consistenza e credibilità al dramma d’amore e di coltello nel quale sarà protagonista assoluto. Roberto Frontali, una certezza a livello vocale, delinea con finezza interpretativa il ruolo di un uomo non più giovanissimo, smanioso di ricreare con la moglie quei momenti di tenerezza che la morte del bimbo si è portata con sé, trasformandolo in assassino per dolente solitudine affettiva. Interessante e particolarmente duttile la scena di Paolo Fantin, una serie di container che affollano la banchina. Gli stessi con rapido cambiamento diventano gli ambienti grigi e infelici di una sorta di prigione, o un manicomio con una fila di vasche per lavare dove Michieletto fa vivere il tormento di Suor Angelica, straordinariamente indossata dalla Racette. Non più il convento, dunque, luogo claustrofobico per eccellenza, ma un’angosciante ambiente dove la cifra distintiva è la crudeltà fino al sadismo. Una libertà artistica che snatura il cupo dramma della ragazza di nobile famiglia obbligata a rinunziare al mondo per aver concepito e dato alla luce un cosiddetto “figlio della colpa”. Ma suor Angelica nella visione di Michieletto non è solo disperata e penitente nella clausura di un convento, è capace di grandi ribellioni contro la zia, la bravissima Violeta Urmana, aiutata da una voce che gli anni hanno caricato di un velluto morbido e tenebroso e da un fisico particolarmente in linea con l’idea di una nobile principessa, austera ed intransigente.
E, per finire, in bellezza naturalmente, “Gianni Schicchi”, ovvero l’avidità e l’ipocrisia, la farsa e la beffa. Qui, MIchieletto ha giocato con tutti i meccanismi dell’invenzione, a cominciare da quel portentoso ingranaggio che ha ricreato la ricca casa di Buoso Donati in un palazzo con ambienti a vari livelli, completamente tappezzati dai colori di Firenze e dai suoi gigli. La pittoresca e variopinta umanità dei parenti di Buoso, animata dalla rabbia di apprendere che il patrimonio dello zio morto viene lasciato per testamento, salvo pochi legati micragnosi e tutti fuori la città del fiore, al monastero di Signa perché i frati preghino per la sua anima. A salvare la situazione e la felicità della propria figlia Lauretta, che ama riamata Rinuccio Donati, verrà chiamato il furbo e mefistofelico Gianni Schicchi.
Ed è proprio in questo piccolo cofanetto di gioie, che ha sempre vissuto di vita propria, al di fuori delle strettoie del “Trittico, che Michieletto ha realizzato compiutamente il successo con poche trovate ma così ben individuate che il pubblico ha voluto sottolinearle con convinti applausi. E, prima fra tutte, quel finale in cui, le pareti della casa di Buoso si richiudono come i petali di un fiore ridiventando un container e serrando tutti i Donati in quello che sembra un carrozzone da circo.
Ottimi i cantanti/attori in scena, oltre a Frontali, Ekaterina Sadovnikova, Natscha Petrinsky, Anna Malavasi, Domenico Colaianni, Roberto Accurso, Matteo Peirone, Francesco Musino. Un po’ debole il Ranuccio di Antonio Poli.
Daniele Rustioni, il direttore, ha raccontato musicalmente con sonorità intense Il Tabarro, ha trovato tinte soavemente attutite per il claustro di Suor Angelica e si è scatenato con le note sgargianti di Gianni Schicchi, tenendo con mano ferma un’orchestra splendida come quella dell’Opera di Roma.