Roma – Puccini impera sui vetusti territori di Caracalla nell’estate del Teatro dell’Opera, lo fa con tre delle sue creature, uscite dal grande affresco dove vive eterna la loro purezza musicale, Turandot, Boheme e Madame Butterfly, presentate così di seguito come avviene nei grandi teatri di pietra, come l’Arena di Verona, giusto per citarne uno.
Quella che offre Denis Krief, chiamato dopo il successo di Rusalka al vecchio Costanzi a fare l’allestimento completo: regia, scene e costumi di Turandot, è una forma di estraniamento rispetto al clima di fiaba nel quale è immerso il personaggio, nato dalla penna di Carlo Gozzi: tutto l’allestimento, infatti, lo colloca in un clima da teatro astratto, emanazione di quei movimenti di avanguardia internazionale circolanti in Europa, specialmente in Russia, nel primi decenni del ‘900, coevi della data di composizione dell’opera, che si erano riverberati anche nella nostra penisola, così non meravigli la staticità del coro (popolo di Pechino), sistemato in alto, dunque al di sopra di Turandot, portata in scena su un guscio, un cilindro di plastica rosso, che somiglia tanto ad una gabbietta per uccellini.
Ci sono idee profuse a piene mani in questa edizione così scarnita di Turandot, con un gioco di omaggi alla Commedia dell’Arte, al cinema (quel mandarino dalla faccia di clown che gioca con un palloncino bianco lattiginoso che rappresenta la luna che alla fine fa il suo mestiere scoppiando non richiama il Chaplin del Grande Dittatore?), persino alla pittura con i manichini metafisici di De Chirico infissi sul palcoscenico, fra i quali c’è lei stessa, con la stessa magnifica veste tinta di rosso e di celeste, setosa, manichini che forse sono la pletora di principi adescati dalla sfida in atto e venuti a confrontarsi forzosamente con la morte. Se non sapranno risolvere i tre indovinelli
Krief ci trasporta in una rappresentazione della Cina degli anni ’30.
La scelta di semplificazione e di minimalismo che obbedisce alla tendenza di oggi di deprivare e impoverire, abbraccia sia le scene che i costumi, rigorosi e maoisti questi ultimi, con solo una piccola fuga per la veste preziosa della principessa, che il regista vede piuttosto smarrita, creatura contraddittoria e ambivalente, paurosa ed arrogante insieme, lei che non vuole crescere, che si rifugia nel suo mondo di memorie e di leggende, per rivivere la storia dolorosa della sua ava stuprata, e quell’episodio di violenza sul quale si è esercitata la sua fantasia di bimba e di ragazza poi, nella solitudine dorata della città proibita, diventa un sogno simulacro al quale Turandot affida il segreto delle proprie fobie, del maschio predatore prima di tutto. Perciò il suo gioco e il suo impero si esercitano su bambole bianche ed inespressive, una sua corte fittizia, alle quali può dare il nome che ritiene più adatto a rappresentarla. Questo mondo psicoanalitico nel quale impera la superba Turandot, diventa un epifenomeno attorno al quale si concretizza Calaf, il principe in cerca di identità da stabilire nel contatto con la gelida principessa,che rifiuta di crescere e di essere donna. Perciò stesso è espressione massima della sensualità virile, colui che penetrerà quel mondo. Così, mentre Turandot diventa quasi una figura di contorno, inserita come viene sempre in palcoscenico al livello del resto dei personaggi, il faro si accende su Calaf, sulle sue contraddizioni, sulla sua testarda voglia di risolvere i rebus della crudele sciocchina che si priva dell’amore per paura di viverlo. Calaf diventa il maschio dominante, funzione della rappresentazione di uno sdoppiamento tra sogno e realtà, dove forse Turandot esiste fantasmaticamente. Il principe senza nome è Jorge de Leòn, tenore canario convincente nei panni di uno stralunato Calaf, dal timbro chiaro ma parco di acuti (il suo “Nessun dorma” scivola fra l’indifferenza del pubblico), ma è ottimo nel registro di centro. Potenza vocale che ricorda eroine del mélo d’antàn in Iréne Theorin, soprano svedese wagneriano, che deve dar vita a Turandot e che sembra richiamarsi ad altra straordinaria storica Turandot, quella di Birgit Nilsson, in particolare nell’aria “In questa reggia”. Liù, la schiava che accompagna la cecità di Timur, è Maria Katzarava, a lei che si sacrifica per amore del bel principe, che sceglie di suicidarsi per non rivelarne il nome, Puccini destina pagine bellissime, di grazia delicata come i sentimenti espressi, ma nel contempo drammatiche, perché tale è il personaggio. Con le note scritte per la morte di Liù la composizione del maestro di Lucca si arresta. Dopo la sua scomparsa, avvenuta un anno e mezzo dopo, a lungo si è portato in scena il Finale con l’happy end scritto da Franco Alfano sugli appunti del compositore, recentemente poi si è anche utilizzato un altro finale più in linea con il linguaggio pucciniano di Luciano Berio, ma, indubbiamente la lettura filologica che sceglie di fermare l’opera nel suo non finale, senza il duetto d’amore fra Calaf e Turandot, se pure sconcerta chi è aduso ad una tradizione incrostata dal tempo, dà il senso di una strana compiutezza.
Nello spettacolo, il cui intenso cast vocale poteva annoverare anche Marco Spotti (Timur), Max René Cosotti (L’imperatore Altoum) e i Ping, Pong e Pang di Igor Gnidii, Massimiliano Chiarolla e Gianluca Floris, spiccano i cori, quello degli adulti del Teatro dell’Opera, educato dal raffinato Roberto Gabbiani, e quello di voci bianche di Josè Maria Sciutto.
Questo nuovo allestimento è stato affidato alla direzione musicale di Juraj Valčuha, dal 2009 direttore della Sinfonica Nazionale della Rai, che si è impegnato in una orchestrazione sofisticata, attenta a leggere la partitura alla luce di una serie di rimandi che vi sono profusi a pieni mani e che sono il respiro dell’epoca della sua composizione, oscillante fra suggestioni cromatiche della musica francese e scelte musicali più vicine all’avanguardia, con qualche rottura della tonalità.