Un uomo chiamato cavallo.

Il primo film dalla parte degli indiani.

Roma, 1 maggio 2020. Chi è stato adolescente negli anni sessanta, prima di noi i nostri genitori nell’immediato dopoguerra, ha vissuto un’educazione di un certo tipo. Le informazioni, il vivere sociale, seguono certi canoni ben delineati a tutti i livelli.

La cinematografia ed il mondo dei fumetti non sfugge a quei canoni e sotto l’influenza statunitense in special modo nei film western c’è inevitabilmente il cow-boy, il bianco, che è il buono e l’indiano, il muso rosso, il nemico assoluto.

Nel 1970 però c’è un sussulto con tre produzioni che stravolgono il modo di intendere il West, stavolta con l’attenzione rivolta agli indiani d’America, ai loro costumi.

In ordine d’apparizione, come nei titoli dei film, Un uomo chiamato cavallo, Soldato Blu e Il Piccolo grande Uomo. Cinquant’anni fa, 1 maggio 1970, esce la prima pellicola che non contrappone la falsa ideologia uomo bianco-buono e pellerossa-cattivo dei successivi lungometraggi ma sceglie, dal punto di vista etnografico, il racconto degli usi, delle tradizioni, del popolo indiano.

A dire il vero una contrapposizione c’è perchè il protagonista, John Morgan aristocratico britannico interpretato da Richard Harris, è un bianco che i nativi americani degli altipiani del Montana mai hanno visto fino ai primi del 1800.

Il disincantato nobile inglese abbandona gli agi della sua posizione sociale e si reca nel selvaggio West americano per una battuta di caccia con tre uomini di scorta. La tribù Sioux di Mano Gialla lo cattura, uccidendo i tre bianchi, e viene dato in affidamento alla madre del capo come cavallo da soma. All’accampamento conosce Batise, mezzo bianco e mezzo indiano, prigioniero da anni, che si finge pazzo sapendo del rispetto che nutrono gli indiani per i mattoidi, che lo aiuta e gli fa da interprete nell’insolita situazione.

Shunka Wakan, nella lingua Sioux cavallo, vive gli stenti e le difficoltà della sua prigionia ma col tempo comincia a capire la loro cultura, oltre ad apprendere la lingua, cercando un’occasione per dimostrarsi uomo; e l’occasione arriva quando intercetta due nemici dei Sioux di Mano Gialla, appartenenti alla tribù Shoshone. Il nostro li affronta, li uccide, ne prende gli scalpi e i cavalli tra lo stupore e l’orgoglio di tutti i Sioux. Ormai affrancato dal ruolo di cavallo, Shunka Wakan offre i trofei di guerra a Mano Gialla per avere come sposa sua sorella l’affascinante Tortora bianca. Prima però deve superare la terribile prova del dolore, il sacrificio al dio del Sole.

Una scena di un accecante verismo, un vero affresco di una delle tante tradizioni indiane.

Il film ha poi un epilogo amaro, drammatico, con la vendetta degli Shoshone che attaccano il villaggio Sioux per impossessarsi di cavalli e donne. Shunka Wakan resiste con i suoi e contrattacca sgominando i rivali che riescono ad uccidere molti guerrieri, tra i quali Batise e l’adorata Tortora bianca. Morgan addolorato rende l’ultimo saluto alla moglie e decide di tornare in patria.

E’ un uomo profondamente cambiato il nobile inglese, che ha imparato la semplicità di una cultura lontana dalla sua formazione. Il film proprio questo ha voluto significare, complice anche l’ambiente, la sua profondità; l’attenzione rivolta ai costumi dei nativi americani ed il loro rapporto con la natura, un equilibrio che l’aristocratico aveva smarrito nell’ambito della sua posizione sociale in Inghilterra.

Siamo cresciuti nel mito dei capolavori di John Ford e del suo sodale John Wayne, ma complice anche il contesto storico, le rivolte studentesche a livello mondiale, per rimanere al cinema, Un uomo chiamato cavallo è il primo passo, l’apertura contro lo scontato stereotipo che abbiamo descritto all’inizio. I due film successivi, Soldato Blu e Il piccolo grande uomo, marcheranno a fuoco il vero rapporto tra i bianchi e i pellerossa precedendo di vent’anni il racconto di Balla coi lupi.

 

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