Spettacolo
Teatro dell’Opera – Damiano Michieletto muove la regia de “Il Viaggio a Reims” di Rossini
Arte fra le note
Roma, 16 giugno 2017 – Rossini si sarebbe divertito, sfoderando tutto il suo impareggiabile humour e la sua bonomia per l’allestimento de “Il Viaggio a Reims”, presente al Teatro dell’Opera.
“Cantata Scenica”, o “Opéra Comique en un Act”, come fu chiamato in origine, “Il viaggio”, era nato come un lavoro d’occasione, con il duplice scopo di omaggiare la valentia dei sette più svettanti cantanti del Théatre Italien di Parigi e celebrare l’incoronazione del conte d’Artois, divenuto re dei francesi con il nome di Carlo X°. Per uno di quei capricci del caso, l’opera per lungo tempo era stata considerata perduta, salvo poi ad essere investita dal tornado della Renaissance del pesarese, quando una ricercatrice americana aveva rinvenuto la partitura negli archivi dell’Accademia di Santa Cecilia.
Oggi, dopo lo storico allestimento del 1984 del Rossini Opera Festival di Pesaro con Claudio Abbado sul podio, la regia di Luca Goldoni, i costumi di Gae Aulenti e un cast ineguagliabile con la Ricciarelli, la Gasdia, la Valentini Terrani, Leo Nucci, Ruggero Raimondi, Samuel Ramey e tanti altri artisti illustri, finalmente approda per la prima volta sul palcoscenico del Costanzi, proveniente dal De Nationale Opera di Armsterdam. E tuttavia l’opera non appare del tutto inedita all’ascolto perché molti dei temi, come consuetudine dell’epoca, erano stati riutilizzati come auto-imprestiti dal compositore per “Le Comte Ory”.
Al Costanzi, l’opera è fortemente connotata dalle scelte di Damiano Michieletto, regista veneziano che si è ritagliato una consistente notorietà anche in virtù dell’allure creativo e contemporaneo dei suoi allestimenti. E certo è davvero una trovata questo museo-galleria d’arte in fibrillazione per il vernissage di una mostra, che prende il posto della location del Giglio d’oro, albergo termale di Plombières, dove accorre un eterogeneo manipolo di viaggiatori, mossi dall’interesse di arrivare a Reims in tempo per assistere alla incoronazione del re. Inoltre, Michieletto sconvolge i piani del tempo ( niente di inedito, per verità, spesso abbiamo assistito ad allestimenti che fanno coesistere sul palco epoche diverse), uccide il prima e il poi, e mette sulla stessa ribalta la direttrice del museo, il medico delle terme, tutti i personaggi della Cantata, dalla Marchesa Melibea alla Contessa di Folleville con i rispettivi innamorati o corteggiatori con una Frida Kahlo che si clona in una visitatrice e osserva le opere d’arte, con gli omini di Haring, i prosperosi ed eccessivi modelli di Botero, l’Autoritratto di Van Gogh, mentre la Duchessa d’Alba di Goya, nel famoso ritratto e a passeggio sul palco, strizzata nel suo vestito bianco con fusciacca rossa, va conducendo con soave nobiltà un cagnolino mignon bianco, naturalmente. Il tutto quando un omino di Magritte, con tanto di bombetta e mela Granny Smith al posto del naso, si diverte ad ammirare la Infanta Margherita di Velasquez nel sontuoso rosa del suo vestito settecentesco che passeggia sussiegosa e ammira Picasso.
E i referenti pittorici non si esauriscono qui, perché tra gli altri motori di interesse si accende l’ansia e la curiosità per il grande quadro che domina il finale: un vero coup de théâtre con il palcoscenico incorniciato da una tela dove i cantanti si muovono en ralenti e riproducono l’ opera celebrativa di François Gerard per poi dissolversi in essa. Tanta abbondanza di citazioni pittoriche e scultoree, con un momento particolarmente suggestivo e poetico destinato a Le Tre Grazie di Canova, che si animano elegantemente sul palco, tuttavia provoca ancora una cesura fra il testo e le situazioni rappresentate, annacquando i pochi accenni drammaturgici di cui è avara la magra trama estrapolata da Luigi Balocchi dal romanzo di Madame de Staël. Che alla fine resta sospesa.
Si estrapola qualche tema come la querelle fra Don Alvaro e il conte di Libenskof. Un allestimento caotico, dunque, che trova motivo di interesse forse solo nel buon cast di artisti, per lo più gli stessi di Amsterdam, che citiamo a cominciare da Mariangela Sicilia dalle linee pure, eleganti, dall’ottima gestione dei fiati che sono specificamente richiesti a Corinne, qui diventata studentessa di storia dell’arte, e che dà ottima prova nel finale della Cantata, una lunga cadenza delicatamente ornata in cui da sola regge l’intento celebrativo con un dolcissimo canto d’agilità. ricco di sfumature. Fra gli altri cantanti, merita un applauso la coppia formata da Anna Goryachova (Melibea) e Mertu Sungu (Libenskof), lei dal timbro perfetto per un ruolo tagliato sulle possibilità del mezzo-soprano, lui con i suoi infallibili e rischiosi salti d’ottava che sfruttano egregiamente la voce limpida e potente. Simone Del Savio è piuttosto leggero per rendere Don Alvaro, creato per il leggendario basso Nicolas Levasseur. Juan Francisco Gatell ha acquisito spessore ed esperienza che travasa interi in Belfiore. Maria Grazia Schiavo e Francesca Dotto si districano nei ruoli della Contessa di Folleville e di Madame Cortese.
Di pari valore il resto del cast. Stefano Montanari dirige Rossini indulgendo a volte in contrasti e slanci romantici.
Ottimo, come di consueto, il Coro di Roberto Gabbiani .