Teatro Argentina – “Le voci di dentro” di Eduardo
La morte della fiducia. Con i fratelli Toni (anche regista) e Beppe Servillo
Roma, 28 gennaio – Macerie morali, acido a bagnare le ferite ancora sanguinolente della guerra, la II° Guerra Mondiale, guerra che ha travolto vite, case e sentimenti. Sulla tabula rasa, si potrà costruire solo quando le crepe saranno richiuse, i tetti torneranno a ricoprire l’uomo nuovo nato sotto le rovine che hanno impolverato la sua visuale etica della vita, imbiancato il rispetto, dissolto affetti e valori morali. Allora forse si potrà riparlare di sentimento della famiglia, di amore solidale fra fratelli accomunati dalla identica sorte. Questo è solo l’auspicio sotteso ad un testo dalla sovrastante attualità: “Le Voci di dentro”, capolavoro di Eduardo, giunto dopo “Napoli milionaria”, ma ancor più amaro, se possibile, più aspro, più cinico e velenoso.
In realtà, oggi, nel 1950, quel che accomuna due fratelli che condividono lo stesso tetto è un miseria furba e rabbiosa, che li avvince con spire di serpente. Protagonisti sono Alberto e Carlo Saporito, due apparecchiatori di feste popolari, che vivono assieme a zio Nicola, vecchio disilluso dal genere umano, che ha rinunciato a parlare, o meglio che comunica con un suo linguaggio a forza di scoppi di petardi, mentre si impegna a creare un super “botto” verde per quando avrà deciso di dire: “basta”.
Loro, i Saporito, non hanno imparato l’arte di arrangiarsi e vivono rosicchiando il patrimonio di sedie e orpelli lasciato dal padre, per placare una fame senza speranze e ancor più illividita se si pensa che c’è chi, come i Cimmaruta (inquilini dello stesso palazzo), pur in tempi così duri, è ben tirato a lustro, vendendo sogni e speranza a quanti si trovano nel baratro della disperazione e si rivolgono alla cartomante perché orienti meglio il loro destino. I Saporito hanno gli occhi e la mente fissi su di loro e se li trascinano persino nel sogno.
Una notte Alberto sogna di vedere i viciniuccidere l’amico Aniello Amitrano, far sparire il corpo e nasconderne i suoi documenti. C’è quella credenza in cucina che cela tracce di cemento fresco, la tomba di Aniello. Alberto, si introduce in casa Cimmaruta di prima mattina e con frasi oscure inizia un’opera persecutoria in attesa dell’arrivo della polizia allertata. Ma le forze dell’ordine setacciano la casa, spostano il credenzino e non trovano nulla. Alberto si rende conto, man mano che le brume del sonno svaniscono, della sua impalpabile verità: aveva sognato. Ritira, dunque, la denunzia, ma nessuno gli crede, anzi finisce con l’essere sospettato perché Amitrano non si trova e la moglie viene a cercarlo proprio da lui, a scongiurarlo di dire la verità.Anche fra i Cimmaruta si innesca unostrano meccanismo, quella famiglia unita che viveva nel benessere oggi è scossa dal di dentro da diffidenze, e sulle loro labbra e nei loro comportamenti germogliano i fiori del dubbio,e mentre il povero Alberto Saporito, impressionato dal fratello Carlo che gli assicura che i vicini si vendicheranno su di lui, cerca di capire perché tutti i membri della famiglia Cimmaruta vengono invece a blandirlo con doni, mentre si profila il carcere per lui, sospettato di essere responsabile dell’omicidio dell’amico, mentre Carlo, il fratello intrallazzatore, gli chiede di firmargli una delega per poter disporre del patrimonio delle sedie sgangherate, mentre deve guardarsi alle spalle, certo com’è che i vicini troveranno il modo di farlo sparire, magari durante quella gita in barca alla quale lo hanno invitato, Aniello torna.
Allora era stato davvero un sogno, una forma allucinatoria, ma in esso si era insinuata come un rivolo di veleno un certo tipo di realtà, perché i Cimmaruta erano davvero assassini della fiducia, della stima, dell’innocenza reciproca e avevano creduto nella colpa l’uno dell’altro, o, come li accusa Alberto :” . Un delitto lo avete messo fra le cose probabili di tutti i giorni; un assassinio nel bilancio familiare!”
Questo testo visionario, inserito nella raccolta “Cantata dei giorni dispari”, dove sogno e realtà hanno lo stesso spaventoso potere è affidato ai due fratelli Toni (anche regista) e Beppe Servillo, dove due non è una somma, ma una elevazione a potenza per qualità e resa interpretativa. Impossibile stabilire una scala di valore della loro arte, tanto complessi e completi artisti sono, loro, Beppe e Toni, che si presentano al pubblico, sciorinando la compiutezza della loro interpretazione scarnificata nella parola – così la voleva Eduardo -, ma resa lussureggiante da piccoli cenni, un codice linguistico “altro” che allarga la comunicazione. In una scenografia essenziale, un ampio spazio vuoto con solo un piccolo tavolo e un credenzino, nel primo atto, e una sfilza di sedie taroccate che scendono come due colonne dall’alto e una piccola elevazione su un lato dove consuma i suoi giorni muti zio Nicola, danno davvero vita ad uno spettacolo di grande fascino, anche per merito di un cast ben collaudato, uno spettacolo nato per commemorare i trent’anni dalla morte di Eduardo, che ormai gira l’Italia da anni con inesausto successo.