Lei è bella e lo sa, anzi sfoggia la sua bellezza traversando su tacchi vertiginosi (almeno quindici centimetri) il palcoscenico del Parco della Musica per il calendario di Santa Cecilia, mostrando tutte le sue superdoti fisiche, dal corpo sottile e atletico con un lato B di prim’ordine alle gambe perfette e toniche esaltate da passettini veloci quanto basta, trattenendo mollemente la gonna lucente di un abito sfaccettato come un diamante aperto da uno spacco inguinale per facilitare il passo, con profonda scollatura sulle spalle. Lei è la bella ragazza cinese Yuja Wang che fa accorrere le masse, che esalta la pagina musicale scelta.
Qui il Concerto n.1 op.23, che è Ciajkovskij, tanto identifica senza ombra di dubbio la sua essenza più leggibile, le sfumature della sua anima, la ricchezza del suo universo melodico, come anche la sua emotività a fior di pelle, la sua tensione romantica – anzi, questo lavoro ha assunto negli anni il ruolo di emblema del concerto romantico -, il suo virtuosismo strumentale. Il pianismo di Yuja Wang riempie di senso una lettura meditata del musicista, le sue dinamiche emotive, lui, viscerale quando occorre, caleidoscopico, ma sempre elegante e raffinatissimo.
Scritto tra la fine del 1874 e gli inizi del 1875, il Concerto fu perfezionato successivamente, tanto che ne esistono tre versioni, l’ultima del 1889. Alla fine, il brano risultò di notevole modernità per l’epoca, ricco di quegli spunti anche popolari, come ad es. l’utilizzo di un tema de “La Canzone dei ciechi”, notissimo canto ucraino, o le memorie della canzonetta francese “Il faut s’amuser”.
Il Concerto costituisce il banco di prova dei più celebrati pianisti del mondo intero; memorabili, fra le altre, le registrazioni di Horowitz e Martha Argerich. Tutti provano a riprodurre il policromismo virtuosistico, i brillantissimi momenti ritmici e melodici, le forme rapsodiche eppure così perfettamente strutturate, gli slanci impetuosi e il colorismo orchestrale, quei ricordi di danse à la russe. Quando le mani di Yuja Wang poggiano sulla tastiera, la sala esplode di suoni pirotecnici, mentre l’artista si lancia sulla pagina di Ciaikovskij con inusitata passione e con rigore artistico, esaltandone i colori strumentali brillanti, quelli stessi che si possono ascoltare in tutto il resto del programma settimanale messo a punto da Sir Antony Pappano per l’Accademia di Santa Cecilia per salutare il pubblico di una tardiva primavera romana.
Alla fine, è un tripudio, successo pieno che investe l’orchestra, la splendida orchestra dell’Accademia, una delle dieci più belle e importanti compagini mondiali, e naturalmente l’amatissimo direttore.
Il Maestro ha voluto dare circolarità al programma settimanale, in qualche modo dedicato a Roma, iniziando lo spettacolo con un brano contemporaneo di Richard Dubugnon, scritto proprio per l’Orchestra ceciliana. Svizzero di Losanna, Dubugnon (nato nel 1968) è approdato tardi alla musica, ma l’impegno e il gran profitto hanno fatto sì che bruciasse rapidamente le tappe. Il suo primo lavoro di rilievo è “Arcanes Symphonyques”, 18 piccoli pezzi che si rifanno ai tarocchi, di cui la madre è cultrice. In genere, egli cerca motivi d’ispirazione extramusicali, non è interessato alla musica pura, coglie motivi di sollecitazione e suggerimenti da ambiti altri, dal gioco dei dadi, dagli scacchi, tutto quello che può suggerirgli una musica narrativa. “Caprice Roman” nasce da un ricordo d’infanzia, una visita a Roma con la madre per il suo ottavo compleanno. Appassionato di simboli, il compositore gioca con la sigla SPQR, partendo dalla S (si bemolle) per ricostruire una scala cromatica di quattro note che si ripetono come un leit-motive per tutta l’opera, identificati senza sforzo dal pubblico assieme ai molti imprestati dagli ambiti musicali diversi. Non è difficile, infatti, ascoltandolo individuare modelli del Primo Novecento. Nelle sue pagine, c’è la brillantezza dell’orchestra di Ravel, c’è Berg (nella stessa struttura degli “Arcanes”, il suo pezzo più famoso), c’è la ritmica selvaggia di certo Prokofiev, c’è l’ironia di Milhaud. E non manca il jazz che ha influenzato molti musicisti del Novecento; lo si avverte in questa composizione densa di energia che si comunica anche al pubblico più disattento, ed è apprezzatissima dai bambini di un Istituto scolastico condotti forse per la prima volta ad ascoltare una esecuzione dal vivo di musica classica, ascoltatori attenti di questo poema sinfonico che racconta la città di Roma e lo fa cogliendone gli elementi più caratteristici, i suoni delle campane, il traffico e il caos cittadino, ma anche quelle spinte moderne rese con una scrittura asciutta e puntuta che ricorda i grattacieli di Manhattan e il mondo di George Gershwin.
“Caprice Romain”, come evidenzia il Maestro Pappano, presentandolo al pubblico in sala, come fa d’abitudine per ogni pezzo contemporaneo, tratta la stessa materia protagonista de “I Pini di Roma” (dedicato anch’esso all’Orchestra di Santa Cecilia), e de “Le Fontane di Roma” di Ottorino Respighi, che chiudono con una lettura esaltante il programma.