Lo strapotere da parte della Mercedes è stato assoluto, in gara quanto nelle qualifiche. La Ferrari ha fatto soltanto da comparsa. Per trovare un altro titolo Mondiale piloti bisogna andare dietro di 8 anni . Eppure la F1 è nata è cresciuta, come l’opera lirica , sotto egida italica: quella delle tre scuderie: Alfa Romeo,Ferrari e Maserati. Nell’edizione numero 66 del Mondiale Piloti di Formula Uno soltanto due circostanze ci riportano al tradizionale binomio F1- Italia.
La prima è l’estroversa vena italica di Nico Rosberg – che il padre Keke , Campione del Mondo nel 1982, ha fatto crescere e maturare campione di Kart in quel di Montecarlo dove la lingua ed i modi di Dante sono di casa. Tutto si può dire di Rosberg meno che sia un classico teutonico. La sua estroversa simpatia è tutta italiana.
La seconda circostanza è che il miglior pilota del momento in pista è dimostrato essere un “italiano di Australia”, quel Daniel Ricciardo padre messinese e madre calabrese, con tratti e sorriso di italiano del Sud che più non si potrebbero. Straordinaria padronanza tecnica condita da un coraggio da crociato, un autentico Ricciardo Cuor di Leone. È stato lui che con i mezzi limitati della Red Bull (motorizzata Renault) l’avversario che ha guastato più feste alla Mercedes.
Lui ed un altro figlio d’arte, il belga Max Verstappen (padre Jos Formula Uno, madre Sophie Kart). Al suo esordio in Formula uno con l’austriaca Red Bull nel Gran Premio di Spagna, il 15 maggio 2016, diventa a 19 anni il più giovane pilota a vincere un gran premio di Formula Uno.
Ricciardo , italiano di Australia, Verstappen entrambi promesse più che evidenti vanno a beneficiare la scuderia austriaca Red Bull che lavora in Inghilterra con motore francese.
La corazzata italiana Ferrari – a cui sicuramente non fanno difetto i mezzi economici e che i suoi motori se li è sempre prodotti da sola fin dalla prima gara di Formula Uno nel 1950 – preferisce scelte di conservazione rivolgendosi a piloti affermati come Sebastian Vettel o prepensionati psicologicamente come Kimi Raikonnen. Risultato: una partecipazione sostanzialmente squallida in un quadro appiattito dalla superiorità dei grandi di gruppi industriali (Mercedes, Ferrari, Renault). Di emozionante c’è solo la partenza dove si spera che qualcuno dei big si speroni lasciando spazio a chi è condannato alle retrovie. È successo a Max Verstappen in Spagna quando le Mercedes si ritirano entrambe.
La Formula Uno intesa dalla Ferrari è un business sicuro da amministrare con la dovuta parsimonia. Le sue vetture da promuovere sul mercato dell’automobilismo del lusso non hanno bisogno di tanta pubblicità perché ne detengono il monopolio. Un settore che non conosce crisi perché la ricchezza si sposta a seconda del vento. Smette di soffiare in Europa, tira forte in Asia. E la Ferrari ed i suoi padroni lo sanno così bene che dopo l’accordo fra Fiat e Chrysler, la Ferrari è stata scorporata dal nuovo gruppo italo-statunitense FCA per essere controllata (come S.p.A ideata da Marchionne) dalla Holding Exor di maggioranza Agnelli.
Di qui la strategia minimalista attuale della Ferrari che limita gli investimenti (per far concorrenza alla Mercedes ) fino a promuovere una gestione casareccia affidata allo Juventino Maurizio Arrivabene. I risultati sono sotto gli occhi di tutti riguardo alle “strategie di gara”, raramente indovinate per quanto attiene scelta di gomme e timing per il cambio.
La Ferrari, insomma, Arrivabene quando arriva…. Ma sicuramente parte male perché è lenta nelle qualifiche dove emergono il valore del mezzo e del pilota.
Detto della Ferrari che si fa (ed ottimamente) gli affari suoi, di Marchionne e degli Agnelli, il vero problema è lo stato di crisi profonda in cui il Patron del Circus Bernie Ecclestone ha gettato la Formula Uno dandola in pasto al Bussiness più volgare.
L’automobilismo è sempre stato uno sport legato agli interessi delle case automobilistiche che sono molto elevati. Però nel tempo aveva sempre lungimirantemente salvaguardato il mantenimento degli aspetti agonistici creando da un lato regole mirate a far partire ogni concorrente in condizioni tecniche quasi paritarie e dall’altro ripartendo intelligentemente nel Circus gli introiti diretti provenienti dalle sponsorizzazioni, pubblicità, botteghini e diritti televisivi. Per allargare il business.
Tutto ciò fino all’arrivo di Bernie Ecclestone. Con lui la F1-Bussiness ha deflagrato, perdendo progressivamente ogni connotazione sportiva. Anzi, rimasto padrone della Formula Uno nonostante certe pseudo concessioni sportive fatte alla Federmondiale, ha deciso di introdurre un ulteriore elemento decisivo quello delle gomme, un business enorme che si è assicurato a fior di denaro la Pirelli. Praticamente tipo di gomme scelte, strategie dei cambi necessari sono diventati il momento decisivo di ogni Gran Premio. I sorpassi, che roba è? Quello che conta è allungare il brodo.
Il bussinness si sviluppa in tre giorni, prove, qualifiche, gara. Tre ingressi a pagamento, tre giorni sui media, tre lunghe trasmissione televisive. Il tutto costruito agonisticamente sul nulla. Perché le prove sono appannaggio dei soliti più attrezzati noti. Le qualifiche anche e le gare vengono condotte dai suddetti dal primo all’ultimo minuto, salvo per la momentanee confusioni di classifica ingenerate dai pit stop, dove l’elemento più interessanti è rappresentato dai secondi impiegati per eseguire il cambio. Per il resto noia assoluta che si ravviva (almeno televisivamente) per la battaglia per la tredicesima posizione dove si vive un momento di un sorpasso.
Ed allora , che ci facciamo con questa Formula Uno, parte importante del DNA di tanti italiani? Non ci resta forse che a rivolgerci ai motori su Due Ruote , ai centauri spericolati delle Moto GP , ai Valentino, Rossi, Marques, Lorenzo, Dovizioso, Honda, Yamaka, Ducati. Uno sport che parla soprattutto italiano come una volta la F1.
E questa come va a finire? Non siamo molto ottimisti. Lo sport Bussinnes è molto invasivo e conquista tutti, specie gli addetti ai lavori.