Roma, 4 Dicembre 2016 – Leggiamo su “Il Messaggero.it” che Rocco Schirripa, il panettiere 63enne accusato dell’omicidio del Giudice torinese Bruno Caccia, nei cui confronti è stato firmata un’ordinanza di scarcerazione da parte della Corte d’Assise di Milano, non esce dal carcere di Opera per un provvedimento di fermo della Procura di Milano che ha già chiesto e ottenuto, nel giro di pochissimo tempo e dopo un errore procedurale, la riapertura delle indagini. A chiedere la scarcerazione dell’uomo, con l’accusa di essere l’esecutore materiale, era stato nei giorni scorsi lo stesso PM milanese che, dopo la presentazione di una memoria da parte del legale dei familiari della vittima, si è reso conto di un errore procedurale commesso; non ci si era accorti che esisteva già un precedente fascicolo nel quale Schirripa era stato indagato per l’omicidio con archiviazione disposta nel 2001. E sulla base di quella precedente inchiesta archiviata, gli inquirenti avrebbero dovuto chiedere al Gip la riapertura delle indagini, cosa che non hanno fatto. Rocco Schirripa, originario calabrese di 64 anni, panettiere, era stato arrestato il 21 dicembre 2015 dalla Polizia con nuove indagini.
Per l’omicidio, dopo dieci anni dall’evento (26 giugno 1983), fu arrestato il mandante, Domenico Belfiore, esponente della ‘ndrangheta in Piemonte, poi condannato all’ergastolo e dal 15 giugno 2015 ai domiciliari per motivi di salute. Caccia lavorava da tempo su numerosi fatti di ‘ndrangheta tra cui alcuni sequestri di persona. Domenico Belfiore e il suo gregario, Rocco Schirripa, secondo quanto è emerso anche dalle ultime recenti indagini, avrebbero atteso il Magistrato a bordo di un’auto, appostati vicino alla sua casa. Belfiore avrebbe sparato a Caccia dalla vettura mentre Schirripa sarebbe sceso per finirlo con un colpo di pistola alla testa.
Dell’ omicidio abbiamo trattato recensendo il bel libro di Giulio Cavalli, nell’articolo dell’ 8 Ottobre 2015 dal titolo: “Nomi, cognomi e infami”, pubblicato nuovamente da “Il Sole 24 Ore” (Il diario di un anno di storie raccontate da un attore di teatro che vive sotto scorta da due anni; scrittore e autore teatrale, noto anche per il suo impegno con spettacoli e monologhi teatrali di denuncia della criminalità organizzata). Cavalli, oltre al racconto di martiri della lotta antimafia ( dall’attentato di via D’Amelio all’uccisione del giornalista antimafia Pippo Fava, all’omicidio di don Peppe Diana, incrociando il coraggio di Peppino Impastato e i ragazzi di “Addiopizzo”, scrive della mafia al Nord. Un libro dedicato anche alle 670 persone che nel nostro Paese sono sotto tutela; ancora, un libro che costituisce un iter tra vicende di uomini semplici dedicati alla propria attività assurti sull’altare dell’eroismo più puro per il malcostume silente e interessato, per non dire fognante, che ci circonda. Cavalli scrive del Magistrato Bruno Caccia, un esempio per tutti i Giudici della Repubblica per dirittura, rigore morale e serietà, per alto senso dello Stato, per sublime dedizione al lavoro. Inutile dire che di Magistrati della sua tempra c’è oggi enorme bisogno in Italia perché si ponga fine allo scempio della Legge e alle frequenti “interpretazioni evolutive” della Legge penale stessa tanto cara a moltissimi “morbidi” Magistrati. Eppure, nel 1983, in Piemonte, un Magistrato dallo sguardo severo e con il vizio antico della serietà la indagava e la combatteva con le armi della Giustizia. La Prefazione è di Gian Carlo Caselli “…In Italia, per certi ambienti politico-culturali il vero peccato non è la mafia, ma raccontarla. Coloro che fanno affari con la mafia amano il silenzio e molti osservatori lo praticano normalmente con un’attitudine a piegare la schiena che è piuttosto diffusa. Giulio Cavalli è decisamente in controtendenza (per questo deve vivere scortato)…” Chi era Bruno Caccia? Nel 1964 a Torino ricopre la carica di Sostituto Procuratore per passare a Procuratore Capo ad Aosta. Nominato nel 1980 Procuratore Capo della Repubblica a Torino, avvia indagini sulle B.R. e sui traffici della ‘Ndrangheta in Piemonte. Il lavoro di Caccia a Torino fa vacillare le basi del dominio ‘ndranghetista tra Torino e provincia. Caccia è quindi una vittima delle mafie del profondo Nord dei primi anni ’80. In quegli anni, sfogliando i giornali e riascoltando le voci di quel tempo, la mafia era un’ipotesi investigativa sovversiva che raccoglieva poco credito nella mentalità dei più. Eppure, nel 1983, in Piemonte un Magistrato dallo sguardo severo e con il vizio antico della serietà la indagava e la combatteva con le armi della Giustizia. I Giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano hanno scritto nella sentenza di condanna del boss Mimmo Belfiore quale mandante: “Egli (il Magistrato) potè apparire ai suoi assassini eccessivamente intransigente soltanto a causa della benevola disposizione che il clan dei Calabresi riconosceva a torto o a ragione in altri Giudici….perchè questo clan aveva ottenuto in quegli anni la confidenza, la disponibilità o addirittura l’ amicizia di alcuni di essi…” Umile e forte di propositi, pochi mesi prima di morire rifiutò la carica di Procuratore Generale della Repubblica di Torino … per non dispiacere ad un altro aspirante … ma anche per restare vicino ai suoi Sostituti…. Quindi, una storia da raccontare e pubblicizzare al massimo per memoria e insegnamento….; la vita di un Eroe della Giustizia con la “G” maiuscola!
E visto che trattiamo l’argomento Giustizia, pur avendo sempre sostenuto la Magistratura quale presidio unico di controllo di legalità nello Stato unitamente alle Forze dell’Ordine, non nascondiamo delusione per questo caso giudiziario stravolto da storture procedurali, tuttavia in parte risolto dalla tempestività del Procuratore Boccassini. L’auspicio però è che si giunga presto a sentenza! Non ci si può permettere di perdere altro tempo……
Questo la Giustizia con la “G” maiuscola impone!