“Un pezzo di storia del Paese, che ha ricostruito sotto il profilo economico dopo le macerie della guerra, ma anche sotto il profilo sociale.”: così Cirino Pomicino rispondendo alle domande di un intervistatore. “Lo descrivono come un essere cinico che ha usato le istituzioni. È vero il contrario: ha servito le istituzioni”: così l’avvocato Giulia Bongiorno, che l’ha difeso in uno storico processo. Ma forse l’affermazione più giusta su di lui è stata: “Sarà la storia a giudicarlo”: così il Capo dello Stato Napolitano, il primo a rendergli omaggio. È indicato come il politico per antonomasia, che nella sua carriera ha visto e fatto di tutto: è stato sette volte Presidente del Consiglio e 21 volte Ministro. Eppure, anche per lui ci sono state delle grandi incompiute: Quirinale, segreteria della Dc, Presidenza del Senato. Soprattutto per il Colle, il senatore a vita avrebbe fatto di tutto per arrivare alla meta. Giulio Andreotti si è spento ieri 6 maggio nella sua abitazione romana alle 12 e 25 a 94 anni, essendo nato il 14 gennaio del 1919. Niente camera ardente al Senato ma nella sua amatissima casa-studio di Corso Vittorio. Il funerale si è svolto oggi pomeriggio in forma privata nella Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini con gli stretti familiari, com’era volere del Presidente come ha fatto sapere Patrizia Chilelli, storica segretaria del Presidente, al suo fianco dal 1989. Più di ogni altro governante, ha attraversato oltre mezzo secolo di vita pubblica, è stato uno dei leader democristiani più votati; ma per i suoi nemici e detrattori era “Belzebù”, circondato da un alone di politico cinico e machiavellico che lui stesso, in fondo, amava coltivare. Il suo pensiero politico è racchiuso efficacemente in due espressioni: “Il potere logora chi non ce l’ha” e “A pensare male si fa peccato ma di solito ci si indovina”. Per una di quelle curiose alchimie della politica che caratterizzavano la prima Repubblica, fu lui, l’uomo della destra Dc, a essere chiamato a guidare i governi di solidarietà nazionale, alla fine degli anni settanta, con l’appoggio esterno del Pci. I leader della Dc avevano capito che la sua più grande virtù era conciliare gli opposti, smussare gli spigoli, metabolizzare le difficoltà. Emblematico il suo rapporto con Craxi. Il leader socialista non lo amava, e fu proprio lui a coniare il soprannome di Belzebù. Andreotti era “la volpe che finirà in pellicceria”. Ma qualche anno dopo, di nuovo a Palazzo Chigi, Andreotti strinse un patto di ferro proprio con Craxi : erano gli anni del “caf” (dalle iniziali di Craxi , Andreotti e Forlani) e l’opposizione di sinistra lo giudicava come il peggio del peggio della politica italiana. Il film “Il Divo” di Sorrentino lo dipinge come responsabile o complice di mille nefandezze. Lui stava per querelare, ma poi preferì lasciar perdere: era più andreottiano così, forse anche perché era convinto che “una smentita è una notizia data due volte…”. “Ai posteri l’ardua sentenza”: in sintesi, come ha affermato il capo dello Stato, sarà la Storia a giudicarlo.