Colpirne uno – Ritratto di famiglia con Brigate Rosse

Di Mario di Vito

Roma, 11 agosto 2022 – Il caso Peci, un episodio del lungo, sanguinario crepuscolo delle Brigate Rosse, ma anche la storia del Magistrato che seguì le indagini.

È l’inizio di giugno del 1981 e a San Benedetto del Tronto le Brigate Rosse rapiscono Roberto Peci, fratello di Patrizio, primo pentito della storia dell’organizzazione. Sottoposto a un terrificante ‘processo popolare’, sarà giustiziato poche settimane dopo in un casolare nella campagna romana.
Mario Mandrelli, il Magistrato che segue le indagini e porta a processo i brigatisti responsabili dell’omicidio, scrive l’autore del libro, è il padre di mia madre, mio nonno.

Attraverso le carte giudiziarie, i giornali dell’epoca, gli appunti finali, i ricordi e i diari di famiglia, emerge il racconto di un episodio di storia italiana e delle sue ombre che si nascondono dietro ogni angolo.
Il tutto viene visto con gli occhi di chi da queste storie è sempre stato circondato. L’importante è tenere a mente che si tratta di una storia vera.

Iniziamo a leggere parti del libro.

– da pag.7. “”È in uno dei fascicoli che aveva seguito che, per la prima volta, Mario Mandrelli si era ritrovato a scrivere il nome di Roberto Peci. Sulla cartella giallo sbiadito del Tribunale c’era scritta una sigla: P.A.I.L. (Proletari armati in lotta). A San Benedetto del Tronto l’extraparlamentarismo di sinistra era stato per molti anni un territorio popolato soltanto da militanti di Lotta Continua. Ragazzi e mezzi intellettuali, gente relativamente poco pericolosa. Il Giudice Istruttore del Tribunale, un fascistone, ce l’aveva con loro. Mario Mandrelli molto meno…

– da pag.11.“Rapina, sequestro di persona, porto abusivo d’armi, danneggiamento aggravato”. Quando i reparti speciali del Generale dalla Chiesa si fanno vivi a San Benedetto per arrestarlo, il 26 ottobre del 1979, Roberto Peci ha 23 anni e ne aveva solo 20 quando, insieme a un gruppo di compagni dei PAIL aveva partecipato all’assalto della Confapi di Ancona. All’assalto aveva partecipato anche Patrizio, che però nello stesso 1976 aveva già scalato le gerarchie ed era stato assoldato dalle Brigate Rosse a Milano. “Sei sicuro?”, gli aveva detto Mario Moretti, il capo delle Br in quell’ occasione. “Ti avviso: nel giro di un anno, se ti va bene, sarai in galera. Se ti va male, sarai morto.” Patrizio Peci, per la cronaca e per la storia, era sicuro di quello che stava facendo: la sua latitanza, infatti, era cominciata poco dopo, quando all’inizio del 1977, nell’appartamento che aveva comprato per trascorrerci le vacanze estive, un certo Andreasi di Torino aveva ritrovato nascoste dietro un mobile tre pistole, un mitra, diversi proiettili e una serie di volantini firmati Br. Evidentemente nei mesi invernali l’appartamento vuoto a due passi dal porto era diventato la base operativa della nascente colonna marchigiana delle Brigate Rosse, e proprio a partire da quel covo improvvisato, seguendo un peculiare filo familiare – i fratelli Peci ne avevano le chiavi perché il papà, capomastro, quella palazzina di via Morosini l’aveva costruita -, Mario era arrivato a loro. Quando però i Carabinieri erano andati a casa Peci, in via Gelli, avevano trovato solo uno dei due: Patrizio, sulla via della clandestinità, aveva già fatto perdere le proprie tracce, così non era rimasto altro che condurre in caserma Roberto. Con il ritrovamento del piccolo arsenale di via Morosini la storia della colonna marchigiana delle Br era andata incontro alla sua fine. Un’avventura che, per la verità, non aveva prodotto gran ché in termini di apporto alla causa rivoluzionaria. Il raid alla Confapi, certo, un altro assalto alla Baby Brummel di Ancona, l’incendio di una caserma dei Carabinieri a San Benedetto, una raffica di mitra contro la caserma di Fermo. Un po’ di botte ai fascisti, che puntualmente sporgevano denuncia. E quella volta, poco prima della scoperta del covo, che diedero fuoco alla macchina del Giudice Mario parcheggiata sotto casa… Effettivamente, nelle Marche, le forze della “geometrica potenza” stavano cominciando a scemare, mentre Patrizio aggiungeva la notizia che – dalla Chiesa ne era sicuro – ci fosse anche lui nel commando che il 16 Marzo del 1978 aveva sequestrato il Presidente della D.C. Aldo Moro, in via Fani, a Roma. Roberto, intanto, era rimasto a San Benedetto e pareva aver rinunciato alla causa rivoluzionaria: portava avanti la sua vita riparando televisori, installando antenne, facendo lavoretti qua e là. L’anno prima, del resto, il fermo di polizia che era seguito alla scoperta del covo di via Morosini era durato appena tre giorni, giusto il tempo per gli inquirenti di capire che lui, sostanzialmente, con quella storia delle armi e dei volantini non c’entrava poi granché. Roberto sapeva e non sapeva. Su di lui i sospetti si sprecavano, ma non c’erano prove che avesse mai partecipato a qualche azione. Patrizio, evidentemente, lo aveva sempre tenuto a una certa distanza dagli affari peggiori”… Nel giugno 1979 era stata arrestata una ragazza, Caterina Piunti: c’era anche lei all’assalto alla Confapi. Con questo arresto, che andava a sommarsi alle presunte delazioni di Roberto al Magistrato Mandrelli, i sospetti intorno a lui erano aumentati. I compagni hanno cominciato a guardarlo male, la voce che il giovane Peci fosse un infame si era fatta insistente nell’ambiente. Sottovoce, però, come sempre le maldicenze in provincia. L’ arresto di Caterina prima e ora quello di Roberto da parte dei Carabinieri di dalla Chiesa sono però una cosa seria: la ragazza verrà condannata a ben 15 anni di carcere per banda armata. Quanto invece al Peci più giovane, nonostante nel 1979 abbia ormai cambiato vita, lavori come antennista, si sia sposato e stia pensando sul serio di mettere su famiglia, ci vorrà un anno perché possa uscire dal carcere di Rieti per mancanza di prove: né Mario Magistrato né i Carabinieri avranno trovato abbastanza contro di lui per poter sostenere un processo. Patrizio, lui sì, è tutta un’altra storia. Patrizio ha partecipato ad attentati, gambizzazioni, omicidi. Tuttavia, quando viene arrestato, il 19 Febbraio del 1980 a Torino insieme a Rocco Micaletto, ci metterà poche settimane a diventare il primo grande pentito della storia delle Brigate Rosse. Collaborerà con lo Stato in maniera integrale, raccontando tutto quello che sapeva a dalla Chiesa e al Magistrato Caselli nella Caserma di Cambiano. Come l’avevano trovato? Secondo la versione ufficiale, a seguito di irruzioni in covi, pedinamenti e conseguenti arresti, i Carabinieri dell’ Antiterrorismo avevano progressivamente chiuso il cerchio attorno a lui e Micaletto fino ad arrestarli in pieno giorno nel centro di Torino, ma i brigatisti si convincono che no, era stato suo fratello Roberto a parlare e a garantire che Patrizio avrebbe collaborato.””

– da pag.28. “”Nell’ aprile di quello stesso 1981 erano stati arrestati Mario Moretti ed Enrico Fenzi, nomi enormi delle Brigate Rosse; negli anni precedenti l’organizzazione era riuscita a reggere all’incarcerazione di decine di militanti di alto, medio e basso livello, ma con l’ingresso in carcere di due personaggi del calibro di Moretti e Fenzi, in quella congiuntura, non si sapeva se e quando le cose sarebbero potute ancora andare avanti. Il colpo di grazia era quasi pronto in Parlamento: una stretta sulle leggi sul pentitismo e la dissociazione, i due pilastri della strategia che forze di Polizia e Magistratura avevano escogitato per scardinare il brigatismo e inaugurato proprio con le confessioni rese da Patrizio Peci a dalla Chiesa e Caselli giusto l’ anno prima e che avevano portato a decine di arresti in quella che doveva essere un’irruzione per sgominare la colonna genovese fino a un massacro di brigatisti nel covo di via Fracchia. Successi palesi dello Stato, sconfitte tremende per le Brigate Rosse, dove regna la confusione e quello di trovare un nuovo assetto non è un vezzo ma una necessità legata a una sopravvivenza che ormai tutti percepiscono a rischio. Certo, in carcere i brigatisti continuano a fare i brigatisti – quasi tutti – ma fuori chi c’è rimasto? Giovanni Senzani è un comunista romagnolo che ha studiato negli Stati Uniti e poi ha lavorato come docente universitario a Firenze e a Siena ed è stato anche consulente del Ministero di Grazia e Giustizia sul tema delle carceri: ha scritto un libro pieno di testimonianze che viene subito considerato un classico nel suo genere. La sua doppia vita – da un lato servitore dello Stato, dall’altro nemico della Repubblica – non aveva destato sospetti fino al settembre del 1978 quando venne intercettata una sua telefonata a un chirurgo dell’ Ospedale San Martino di Genova. Il professore chiedeva informazioni sulle condizioni di salute di un compagno brigatista in carcere. Nel marzo successivo venne arrestato, ma rilasciato dopo tre giorni perché non c’erano prove di una sua affiliazione alle Brigate Rosse. Non ancora, quanto meno. Tuttavia, il fatto che la sua libertà fosse a tempo determinato lo aveva ben presente, e infatti, appena liberato, era sparito nel nulla e aveva cominciato la sua vita in clandestinità. Da quanto tempo il mite professore romagnolo si era dato al terrorismo? Non lo sa nessuno. C’è chi sostiene che fosse lui la mente strategica del sequestro Moro e chi, soprattutto brigatisti, ritiene questa voce completamente infondata. L’unica cosa certa è che la sua ascesa era cominciata nella primavera del 1979 insieme alla latitanza. Sposato con Anna Fenzi, sorella di Enrico, nessuno sapeva che a Roma, per gran parte degli anni ‘70 aveva condiviso l’appartamento con un informatore dei servizi segreti. Con Moretti aveva progettato e portato a termine il sequestro del Magistrato Giovanni D’ Urso, in quella che forse era stata l’ ultima operazione unitaria delle Brigate Rosse prima della spaccatura. Già, perché tra Moretti e Senzani c’era un dissidio politico di fondo molto difficile da risolvere: il primo pensava che la rivoluzione dovessero farla gli operai, il secondo invece riteneva che prima o poi si sarebbero sollevate le masse, e da lì si sarebbe rovesciato il potere dello Stato borghese. Così, con l’arresto di Moretti, Senzani si era ritrovato sostanzialmente la strada spianata per seguire la propria linea e portare i militanti con sé.””

– da pag.39. “” Sono passati 9 giorni dal rapimento di Roberto Peci, quando a Roma le Brigate Rosse battono tre colpi: il Vicequestore Sebastiano Vinci viene ucciso a colpi di pistola, Giuseppe Falconieri, direttore di una società che vende i libri a rate, viene sequestrato per qualche ora insieme al suo impiegato e poi gambizzato, uno degli avvocati di Peci, Antonio De vita, mentre usciva dall’ ascensore del palazzo in cui vive, al 146 di viale Mazzini, viene sorpreso da un commando che gli spara e lo ferisce al collo e alla guancia. De Vita, armato, risponde al fuoco e colpisce una brigatista, Natalia Ligas, che viene portata via a braccio dai suoi compagni. A Napoli intanto si continuava a indagare sul sequestro del democristiano Ciro Cirillo, rapito alla fine di aprile. Le Brigate Rosse fanno trovare un comunicato, il decimo, dove elencano le condizioni per il suo rilascio: “requisire le case sfitte dei padroni”, a cominciare da quelle necessarie per chiudere immediatamente il campo terremotati della Mostra d’oltremare; che “cessi la censura sul programma di lotta dei disoccupati organizzati”; che venga reso pubblico integralmente il “materiale politico sequestrato dalla magistratura napoletana nelle redazioni di Panorama e L’Europeo , e cioè “le tesi politiche elaborate dal fronte delle carceri e dalla colonna di Napoli, compresi gli interrogatori a Cirillo e all’Assessore Umberto Siola”… Le indagini sul sequestro vanno a rilento: c’è un vaghissimo sospetto che Roberto Peci sia tenuto nascosto da qualche parte tra le Marche e il Lazio ma vai a capire dove. Ogni giorno i Carabinieri e la Polizia entrano in casolari che puzzano di covo brigatista, ma non trovano mai niente.””

– da pag.61. ““Qui Brigate Rosse. La sentenza di condanna a morte di Roberto Peci è stata eseguita. Il corpo si trova a Roma. Prendere la via Appia Nuova direzione fuori città. All’altezza dell’Ippodromo delle Capannelle, sulla destra si trova via di Casal Rotondo, di fronte a via delle Capannelle, percorrerla per qualche centinaio di metri fino allo spiazzo sterrato, poi prendere la stradina sterrata in discesa e si arriva ad un gruppo di casette diroccate. In una di queste si trova il corpo di Roberto Peci.”” Alle 06:15 della mattina del 3 agosto l’ Ansa riceve una telefonata con queste parole. Poco dopo lo stesso testo viene letto al telefono anche ai giornalisti di “Paese Sera” e del “Messaggero”. Il corpo di Roberto viene ritrovato supino, con le mani sul petto strette dalle manette. Gli occhi bendati e sotto due tamponi di ovatta. Sul muro dietro il cadavere crivellato dai colpi c’è un cartone bianco. “MORTE AI TRADITORI”, c’è scritto. Per terra ci sono bossoli di calibro 7,65. Roberto indossa gli stessi vestiti del giorno del rapimento: jeans corti al ginocchio e una maglietta bianca. Nella baracca c’è anche una bandiera rossa con la stella a 5 punte cerchiate. È stato portato lì poco prima dell’alba. “Alle 5 del mattino Peci era ancora vivo”, dice il Generale dalla Chiesa al Magistrato Mario Mandrelli al telefono. “Gli hanno sparato mentre era in piedi. Lui, per istinto, ha sollevato le braccia incatenate e diversi colpi gli hanno bucato il braccio che proteggeva il petto”. In totale è stato preso da 15 proiettili, sparati da almeno due pistole. I colpi sono andati a segno alla tempia destra, alla regione parietale destra, l’orecchio destro, la bocca, in tre punti sul lato sinistro del torace e in quattro punti sul destro. Il braccio destro è stato trapassato dal piombo in tre punti. Gli hanno sparato da vicino, attorno ad alcune ferite c’è addirittura l’alone della fiammata. I tiratori erano due: uno sulla sinistra e uno di fronte, leggermente spostato verso destra. Le pistole erano revolver calibro 32 semiautomatiche, entrambe dotate di silenziatore.””

– da pag.138. “”Quando il giudice Rebori annuncia che il PM può prendere la parola, manco se ne accorge. “Dottor Mandrelli”, lo chiama Rebori, “Può cominciare con la sua requisitoria”. Mario si ridesta dai suoi pensieri guarda l’ orologio – le 09:42 – e poi si alza, avvertendo una fitta di dolore che quasi lo piega in due, sospira e poi comincia.“” Questo non è un processo difficile, è un processo grave. Poi guarda il Presidente, guarda gli avvocati, guarda i giurati. “”Roberto Peci non era nessuno. Non un traditore e una spia. Era un elemento di pochissimo rilievo nelle Brigate Rosse, portava sulla schiena il peso del nome del fratello. Roberto Peci era uno che spaccava la lira, campava con due-trecento mila lire al mese che dovevano bastare a lui e alla moglie. Gli si vuole attribuire la colpa di aver convertito quella vera personalità che era il fratello, di aver collaborato con il Generale dalla Chiesa, di aver fatto arrestare otto compagni san benedettesi. Menzogne. Menzogne che tutti sanno essere tali. Roberto Peci di certo non fu ucciso per quello, ma per ben altri motivi. Perché Senzani e il suo gruppo vogliono terrorizzare i pentiti e le loro famiglie. Perché la vittima, sotto la tortura psicologica del processo proletario, era stata condotta a dire false verità sul presunto doppio arresto del fratello Patrizio e sulle sue personali responsabilità negli arresti di San Benedetto. Perché, infine, in quel preciso momento la lotta per la supremazia delle Brigate Rosse si svolgeva a colpi di cadaveri gettati fra la gente. Tutti sanno che il pentito che portò agli otto arresti dei presunti brigatisti di San Benedetto del Tronto era Concettino Di Girolamo e non certo Roberto Peci, il quale due anni prima, arrestato per un arsenale nascosto dal fratello Patrizio in uno degli appartamenti gestiti dalla famiglia Peci, si era limitato a fare i nomi di persone, peraltro già note alle Forze dell’Ordine, con cui si incontrava a cena per parlare di politica e mangiare prosciutto. Tutti sanno che Roberto Peci andò sì, due volte in una caserma dei Carabinieri di San Benedetto del Tronto mentre il fratello era latitante, ma solo per montare un’antenna tv. È chiaro a tutti poi che se fosse stato liberato dai suoi sequestratori, Roberto avrebbe rivelato di essere stato costretto a raccontare bugie sul doppio arresto di Patrizio. Si è cercato di accreditare la tesi del tradimento di Roberto al fine di colpire dalla Chiesa, che poi fu ucciso dalla mafia in perfetta sintonia con questi brigatisti, di colpire il Giudice torinese Giancarlo Caselli, di aprire spaccature all’ interno del Governo. La decisione di uccidere Roberto Peci fu un’iniziativa quasi personale di Senzani, anche se nella logica brigatista l’ eventualità della morte era prevedibile. Senzani, che tiene i contatti con la camorra, la ‘ndrangheta e con i servizi segreti non importa quali, certamente però con quelli esteri, aveva anche i motivi personali per decretare la morte di Peci. Aveva paura che le sue menzogne venissero scoperte e ha paura ancora oggi. Ha paura che venga recepita una verità incontrovertibile, che cioè l’uccisione di Peci fosse un’azione inutile e feroce, che le analisi fatte allora fossero sbagliate, che le Br avevano ucciso per uno scopo che non poteva essere raggiunto perché i pentiti ci sono ancora e sempre più numerosi, nonostante la vendetta trasversale che ha colpito Patrizio Peci…”” Poi la richiesta delle condanne. Ergastolo per Giovanni Senzani con un anno e sei mesi di isolamento; ergastolo per Stefano Petrella con un anno di isolamento. Trent’ anni di reclusione per Stefano Petrelli; 28 anni di reclusione per Massimo Gidoni. 26 anni di reclusione per Natalia Ligas; 26 anni per Susanna Berardi; 15 anni e un mese per Roberto Buzzati; 10 anni per Averamo Virgili, brigatista irriducibile il cui coinvolgimento nel sequestro Peci era stato però risultato provato.

Sin qui il libro

Ora, come di consueto, integrazioni, analisi e conclusione. Leggendo il libro di Marcello Altamura “IL PROFESSORE DEI MISTERI” (https://www.attualita.it/notizie/tematiche-etico-sociali/le-pagine-dellitalia-tenebrosa-per-il-terrorismo-senzani-il-professore-dei-misteri-il-caso-cirillo-il-caso-durso-con-ricordi-personali-42960/) ripercorriamo le pagine dell’Italia tenebrosa per il terrorismo ed è per questa logica di morte che l’Avv. De Vita doveva morire. Si, la prima storia completa del più enigmatico terrorista di sinistra, Giovanni Senzani, già ampiamente descritto nel libro ora recensito. Fatta questa doverosa premessa, nel libro si cita giustamente in modo più ampio l’Avvocato Antonio De Vita, da me ben conosciuto sin dal 1971 quando ero Comandante del Nucleo Operativo della Compagnia di Roma Trastevere, frequentando quasi giornalmente Magistrati, aule, uffici e corridoi di Piazzale Clodio. Si legge nel libro: ””Il 19 giugno 1981 è un venerdì. L’Avvocato Antonio De Vita, 40 anni, entra nell’androne del numero 146 di Viale Mazzini, dove ha sede il suo studio legale. Nella borsa e sotto il braccio porta una serie di fascicoli, carte che riguardano un incarico molto delicato. De Vita infatti è l’avvocato di Patrizio Peci. In teoria, è una nomina d’ufficio ma il pentito in realtà ha chiesto espressamente che sia questo legale, ex Tenente dei Bersaglieri, figlio di un Ufficiale medico e di una Crocerossina, ad assisterlo. De Vita entra nel vano scale e si avvia verso l’ascensore. D’un tratto il suo sguardo incrocia quello di un uomo e di una donna. L’avvocato non ci fa caso, pensa che stiano aspettando qualcuno o che si accingano a salire. Così, lui fa altrettanto e si avvia a passo veloce verso l’ascensore. È un attimo: De Vita sente uno sparo, si volta e viene colpito di striscio ad un orecchio e ad una spalla. Così, con invidiabile sangue freddo, De Vita si volta e fa fuoco verso i suoi assalitori. I suoi colpi feriscono una donna, Natalia Ligas, “Angela”, che però riesce a fuggire insieme al suo complice grazie all’aiuto di un terzo brigatista, che li aspetta all’esterno in un’auto che verrà ritrovata dopo pochi minuti nella vicina via Lepanto. I brigatisti spararono ben 45 proiettili contro 15 del legale. Quell’azione, probabilmente progettata per eliminare De Vita, si trasforma invece in un avvertimento. E il destinatario è ovviamente Peci, le cui rivelazioni si sono “triplicate”… Un amico Ufficiale dei Carabinieri (racconta il libro), gli ha consigliato di girare armato, aiutandolo a ottenere velocemente il porto d’armi e consigliandogli l’acquisto di una rivoltella.”” Il caro Avv. De Vita, che aveva uno spiccato senso dello Stato con ammirevoli qualità di senso civico e amor di Patria, in verità accettò l’incarico propostogli dai PM Sica e Priore, con consapevole coscienza e quell’intemerato coraggio che lo caratterizzava. Ammetto, per amore di verità, di essere stato io a suggerirgli di richiedere il porto d’ armi, come giusto. In quegli anni ero operativo all’Antiterrorismo del Ministero dell’Interno, sotto la Direzione del grande Prefetto Vincenzo Parisi, e del Questore Mario Fabbri, recentemente scomparso, le cui attività erano sempre svolte d’intesa con la Magistratura. La coraggiosa reazione di Antonio De Vita portò al recupero delle armi, che poi, si disse, si rivelarono le stesse che avevano ucciso l’indimenticato Generale dei Carabinieri Enrico Galvaligi, nel pomeriggio del 31 dicembre 1980, dando impulso alle indagini per la disarticolazione della colonna brigatista. Come si ricorderà, la Ligas fu operata segretamente nella Clinica di Lagonegro del Prof. Domenico Pittella, importante esponente del Partito Socialista Italiano, Senatore della Repubblica per tre legislature. Quello stesso tragico 19 giugno, sempre a Roma, poche ore prima, nel quartiere Primavalle, all’epoca al centro di forti tensioni politiche e sociali (ricordiamo l’uccisione a seguito dell’incendio dell’appartamento dei fratelli Mattei, di 8 e 22 anni, nell’aprile 1973, da parte di elementi di Potere Operaio partecipando attivamente alle indagini), le BR avevano ucciso il Vice Questore Sebastiano Vinci, validissimo Dirigente di quel Commissariato di PS. Il valoroso Funzionario, attinto da numerosi colpi d’arma da fuoco, morì poco dopo al vicino Policlinico Gemelli, mentre l’ Agente, sebbene gravemente ferito, reagendo con ammirevole sangue freddo con l’arma in dotazione, mise in fuga i terroristi.

Riguardo all’attività professionale, ricordiamo che De Vita, tra le tante cause in cui ha evidenziato brillantemente sia le sue alte qualità dottrinarie di illustre giurista, sia oratorie in memorabili arringhe, assunse la difesa del portiere di via Poma, a Roma, Pietrino Vanacore, a seguito dell’uccisione nel 1990 della giovane Simonetta Cesaroni, sino alla completa sua assoluzione. Fu un caso, come si ricorderà, clamoroso che per anni appassionò la pubblica opinione divisa tra innocentisti e colpevolisti.

Concludo, ricordando questo grande Avvocato, deceduto per malattia anni addietro con il privilegio di assisterlo, ha manifestato ovunque abbia svolto la sua professione al servizio dei semplici e di chi ha sbagliato per errore, non già per scelta meditata; Lui, il patrocinante a titolo gratuito di rappresentanti delle Forze dell’Ordine sotto processo per motivi di servizio; Lui, Antonio De Vita, l’Avvocato che ha onorato l’Ordine Forense con quella nobile passione di servire il Magistero di Giustizia e quindi lo Stato in modo consapevole e ragionante, quale riconoscimento ha ricevuto per il suo atto di Valore reagendo alla protervia omicida del terrorismo?

Proprio nulla! Solo il ricordo degli Amici veri.

Ho finito.

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