Conclusa la diciottesima conferenza ONU sul clima a Doha, in Qatar. Quale futuro?
Si è chiusa la diciottesima Conferenza ONU sul clima tenutasi a Doha, in Qatar, con apprezzabili risultati che si potrebbero definire per il momento solo di intenti ancorchè importanti. I Paesi poveri e non industrializzati, causa anch’essi di grande inquinamento globale per l’uso energetico di carbone spesso torbato, hanno ottenuto lo status di “Paesi svantaggiati”, con tutti i benefici economici possibili, grazie alla conferma dell’esistenza di un fondo di 100 miliardi di dollari, già previsto nella conferenza dello scorso anno a Durban in Sudafrica, da destinare in loro favore entro la fine dell’attuale decennio.
L’obiettivo sarà quello di compensare con risarcimenti tutto quello che non è stato fatto dal punto di vista del taglio delle emissioni di anidride carbonica, per tentare anche di porre un argine alla perdita di territorio per quelle nazioni insulari che corrono il rischio di essere sommerse. Ora, il problema di ordine pratico consiste nelle modalità di erogazione di questi aiuti. Alcuni Paesi protagonisti, al riguardo, hanno richiesto l’ istituzione di una banca con questo esclusivo compito mentre gli USA vorrebbero sfruttare gli organi internazionali già esistenti. La scelta finale si deciderà a Varsavia nel corso della prossima conferenza sul clima. Altra questione importante riguarda il taglio delle emissioni in atmosfera e per questo Europa e Australia hanno sottoscritto un protocollo “Kyoto 2“, mentre tutte le altre nazioni si sono defilate in attesa del trattato definitivo che verrà stilato nel 2015, e questo anche per valutare il comportamento di Stati Uniti, Cina e altri Paesi cosiddetti reticenti. Certamente da seguire la questione cinese, in quanto oltre ad essere il Paese più inquinante del mondo, la Cina è anche considerato paese in via di sviluppo, quindi sarà interessante vedere come sarà fatto risultare, se tra quanti devono fare i sacrifici ovvero tra quanti dovranno ottenere benefici. La risposta a tutto ciò l’ avremo tra un anno alla conferenza che si terrà a Varsavia. Così, mentre si rimanda per non decidere in maniera rapida e drastica sul bene comune ambiente e sul futuro dell’umanità, sappiamo che il buco dell’ozono ha raggiunto ormai una estensione pari a tre volte quella degli Stati Uniti e che l’ozono viene distrutto dai gas serra; sappiamo pure che l’effetto serra, cioè il riscaldamento della Terra, è provocato dall’anidride carbonica, dai carburanti e dal carbone. Il migliore parametro di riferimento è l’osservazione dei ghiacciai, il più grande disgelo dalla fine della glaciazione. Lo spessore e la superficie del polo nord si stanno riducendo. Nel ‘900, tra l’altro, i nostri ghiacciai alpini si sono ridotti del 50%; il numero degli eventi meteorologici negli ultimi anni è balzato da 360 a più di 700 (così l’ONU), mentre i grandi eventi alluvionali del mondo sono stati 6 negli anni ’50, 18 negli ’80, 26 negli anni ’90 dello scorso secolo, oggi non se ne tiene più il conto. Ciò è imputabile all’uomo ovvero alla natura? Una cosa è certa, andrebbe costruita una economia energetica pulita che ricavi l’energia possibilmente dall’idrogeno. Nel dissesto ambientale generale, l’acqua è sempre più insufficiente; oggi più di cinque milioni di persone muoiono ogni anno nelle zone del mondo ad alta povertà per acqua contaminata; nel 2025 si prevede che 2 miliardi di individui non disporranno di acqua bevibile. A rendere più problematico questo quadro, consideriamo l’aumento della popolazione sulla Terra; se pensiamo che agli inizi del ‘900 vivevano 1 miliardo e 600 mila persone, oggi ben 6 miliardi affollano il mondo, con una previsione nel 2025 di 7 miliardi e nel 2050 di 10 miliardi. Il problema è oltremodo serio! La storia del dissesto idrogeologico nella nostra piccola Italia, poi, è storia antica, documentalmente collegato all’incuria di amministratori e politici di piccola, media e grande caratura, sempre comunque il tutto riconducibile all’abusivismo edilizio e alla scarsa cura per il bene comune ambiente. A metà novembre scorso, a seguito dell’alluvione in Maremma, messa in ginocchio come negli anni scorsi è avvenuto per la Liguria, la Lunigiana, il messinese e il Veneto, il Capo della Protezione Civile nazionale Gabrielli, in un rapporto redatto unitamente a Legambiente, ha dichiarato che ben 6633 comuni italiani sono in pericolo con alto rischio per la fragilità del suolo; cioè ben otto comuni su dieci. Secondo le stime del CRESME sono stati 26.500 i casi di abusivismo nel 2010, tra nuove costruzioni ( 18.000), ampliamenti e variazioni di destinazioni d’uso. In Calabria, con zone ad altissimo pericolo idrogeologico per la presenza delle note “ fiumare”, si valuta, secondo Legambiente, che lungo la costa vi sia un abuso ogni 100 metri, 5.200 in tutta la regione e 2000 nella sola provincia di Reggio Calabria. In Campania, invece, tra le regioni più colpite negli ultimi sessant’anni da eventi franosi, con 431 vittime, come da inondazioni con 211 vittime, in soli 10 anni sono state realizzate 60 mila case abusive, 600 all’anno, 16 al giorno. Ma per tutto questo cosa si fa nel nostro lietopensante Paese? Ben poco, se non chiacchiere, magari di carattere preelettorale tanto per gabbare come al solito la gente! Ma qualcosa però si muove, lentamente ma fortunatamente a livello internazionale, come illustrato sulle conclusioni della Conferenza ONU sul clima appena concluso. Tra l’altro, va riconosciuto al Presidente Obama, appena eletto la prima volta, di aver fatto approvare dal Congresso un Legge antinquinamento che impone la riduzione del gas serra dell’85 % entro il 2050, mentre l’ Unione Europea è attestata alla formula del 20/20/20, vale a dire -20 di anidride carbonica, + 20 di efficienza energetica + 20 di energie rinnovabili.
Concludo, quindi, con un auspicio di speranza!