Roma, 2 agosto 2019 – Quali sono le reali necessarie riforme da fare secondo il Dottor Luigi Ciampoli, già Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma. “Molti degli avvenimenti dei giorni nostri hanno poco a poco dilatato i confini della sorpresa normalmente conseguente alle nuove notizie.
La portata di queste ultime però, mentre ha arricchito la conoscenza del pubblico, al contempo, purtroppo, ha finito per aumentare la negativa esperienza. Infatti, dinanzi a molti dei moderni fenomeni, si rimane sempre più sorpresi e disorientati dal loro verificarsi.
Infatti dolorosa è la constatazione sia che essi trovino conferma, sia che di essi venga invece ritenuta la insussistenza.
Quel che meraviglia poi, in conclusione, è la assenza di ogni riconducibilità o riferimento a valori che normalmente dovrebbero regolare il vivere umano. La separazione tra bene e male, tra lecito ed illecito, che da sempre caratterizzano ogni tipo di società, appare invece annullata o dissolta in una differente e superficiale assenza di qualsiasi distinzione. L’illecito non è quindi più concepito come risultato di una negativa scelta di comportamenti ma piuttosto quale frutto della assenza di qualsiasi percezione di disvalore della propria azione, motivata solo dal conseguimento della propria utilità e dalla affermazione del proprio libero arbitrio.
Il fondamentale principio di base, al quale ogni diritto si riferisce reca in sé, con lo stesso vigore della sua affermazione, l’altrettanto deciso riconoscimento di un preciso dovere che appare del tutto trascurato con sfrontatezza e superficialità.
Tali considerazioni si ripropongono anche dinanzi a fatti che, pur riferiti a singoli personaggi, hanno finito per coinvolgere generalizzando, l’intera magistratura italiana. Un giudizio sull’intera vicenda merita però delle puntualizzazioni. Infatti, correttamente la pubblica opinione attende, da chi è chiamato ad amministrare la giustizia, da chi la dispensa “In nome del popolo italiano”, un costante atteggiamento ed un continuo riferimento a principi di etica e condotta che sappiano coniugare l’essere con l’apparire come più volte ebbe a ricordare e richiamare l’ex presidente della Repubblica Sandro Pertini.
È dunque evidente che il magistrato, legato a tale chiaro e fondamentale principio, deve ad esso conformare la sua vita, oltrecchè la sua attività professionale, non cedendo ai richiami di scelte politiche o di carriera che in qualunque modo possano turbare o autorizzare ogni differente valutazione della sua indipendenza ed autonomia.
Certamente, in ossequio al dettato costituzionale che non consente, prima di una definitiva sentenza, anticipati giudizi, non ci si può soffermare su negative valutazioni sui fatti e sulle persone ma è pur vero che il solo verificarsi di tali episodi finisce sempre, per le ragioni espresse, col generare profonda amarezza.
Ciò anche perché la magistratura italiana da svariati anni evidenzia rilevanti criticità, sollecitandone la necessità di soluzione.
Occorre infatti che il Legislatore coraggiosamente affronti la vastità del problema non limitandosi a riforme, per così dire di pronto e limitato intervento, ma riguardi strutturalmente l’intero settore della giustizia.
Urgente soluzione, ad esempio, reclama la riforma dei codici con riguardo sia alla parte sostanziale sia a quello processuale, eliminando ormai inutili e superati balzelli di una già mastodontica produzione normativa.
La rapidità dei processi è sollecitata non solo dalla Corte Costituzionale ma anche dal richiamo dell’indelebile principio di ogni democrazia: la certezza e la celerità della pena. “Quanto più la pena sarà pronta e più vicina al tempo del delitto, tanto più sarà utile e giusta”, avvertì Cesare Beccaria. Ed a proposito di accelerazione dei processi e dell’eliminazione da essi di inutili fronzoli, un’apposita citazione merita l’istituto del rito abbreviato. Il suddetto istituto venne introdotto nel rito processuale per dare risposte di illuminata democrazia, snellendone l’iter ma ha di fatto evidenziato il suo fallimento producendo sentenze che i cittadini, molte volte, non hanno capito nè condiviso, sostanziandosi solo in una surretizia attenuante della pena a dispetto della ritenuta gravità dei fatti.
A lungo pure si è dibattuto sul tema della separazione delle carriere dei magistrati divise tra giudici e pubblici ministeri, senza affrontare, con chiarezza di intenti e senza politici infingimenti, il vero nodo della questione rappresentato dalla scelta costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale, legata unicamente alla lettera della legge oppure alla indicazione del potere esecutivo ad imitazione di altri sistemi giuridici.
Ma la indicata differenza non scaturisce dal dichiarato intento di impedire eccessi inquisitori, ancorché talvolta verificatisi, quanto invece alla volontà di stabilire la stretta connessione, vorrei dire dipendenza, del potere giudiziario rispetto a quello politico.
I padri fondatori della nostra Costituzione hanno invece scelto l’esatto contrario, escludendo che il potere giudiziario condizioni l’agenda del potere politico e così pure che quest’ultimo miri a condizionare o intervenire nelle decisioni da assumere nei Tribunali. Gli eventuali eccessi o straripamenti di potere da parte dei magistrati sono affidati alla competenza degli organi dell’autorità disciplinare non sempre sostenuti nei loro compiti ed anzi talvolta ridimensionati. Non può infatti essere ulteriormente coltivata la tendenza che mira a sminuire il potere d’intervento dei capi degli uffici favorendo così, in nome di un’errata configurazione della tutela ed autonomia dei singoli magistrati, una sostanziale disordinata ed indecifrabile confusione di comportamenti e condotte, inebriate dall’esaltazione di un incontrollato ed incontrollabile libero arbitrio.
Il legislatore dovrebbe infatti considerare che il conferimento di un incarico direttivo comporta, insieme alla valutazione e riconoscimento del merito, anche il coraggioso affidamento di una crescente responsabilità di cui, a sua volta, l’interessato può e deve essere chiamato a rendere conto.
Deputato alla indicata attività è di Consiglio Superiore della Magistratura i cui compiti essenziali hanno visto mano a mano, assumere fisionomie diverse più orientate verso espressioni di professionalità diverse e di diffusi interessi che non di corretto autogoverno della Magistratura stessa.
La sua presidenza e la sua autorevolezza, affidata al Capo dello Stato, non dovrebbe consentire una frantumazione dei suoi compiti attraverso totalizzanti espressioni delle varie correnti e scongiurando, con la garanzia del proprio intervento, gli incresciosi e vorrei dire dolorosi e mortificanti episodi resi pubblici di recente.
La dichiarata iniziativa dell’attuale Ministro della Giustizia, orientata verso una sostanziale diminuzione della influenza o ingerenza delle correnti, rimodula il sistema elettorale dei componenti togati del Consiglio Superiore della Magistratura, affidando ad un iniziale votazione della base la indicazione dei candidati, successivamente scelti mediante sorteggio.
Tale iniziativa però appare destinata all’insuccesso o quanto meno a non raggiungere gli scopi dichiarati. Invero sembrerebbe più opportuno l’interversione delle due fasi elettorali affidando al sorteggio l’indicazione iniziale della schiera dei candidati e, successivamente, alla votazione la definitiva nomina. Così infatti, la individuazione dei candidati verrebbe in concreto ad essere sottratta a quelle designazioni correntizie che spesso si sono risolte in un vero e proprio mercanteggio delle scelte e delle candidature.”
Dottor Ciampoli, La ringraziamo, a nome dei nostri Lettori ma anche di tutti i cittadini della Repubblica, per averci chiarito quali sarebbero le vere, indispensabili riforme da attuare per il funzionamento ed il recupero della credibilità del riferimento giudiziario dell’Italia in cui, oggi, vengono emesse sentenze incomprensibili sia ai comuni cittadini che agli operatori di Polizia proprio grazie alla completa autonomia di singoli Giudici.