Roma, 3 settembre 2020 – Il 5 agosto è morto Sergio Zavoli, maestro del giornalismo televisivo. Aveva 96 anni.
“Diario di un cronista“, è un’opera dedicata a chi c’era, a chi vide, ma anche e soprattutto ai giovani, a chi ancora non era nato quando l’autore era già un protagonista dell’informazione italiana.
Sergio Zavoli, padre di programmi storici come ‘La notte della Repubblica’, è stato radiocronista, condirettore del telegiornale, Direttore del Gr, Presidente della Rai dal 1980 al 1986, autore di inchieste che hanno segnato la storia. Senatore dal 2001 al 2018, nel 2009 è stato eletto Presidente della Commissione Parlamentare per la vigilanza sulla Rai.
Sergio Zavoli ha scritto saggi, come ‘Viaggio intorno all’uomo’ (1969), ‘Nascita di una dittatura’ (1973), ‘La notte della Repubblica’ (1992), legati a sue trasmissioni televisive di successo. Nelle pagine del libro in trattazione, del 2003,ripercorre tanta parte del secolo appena trascorso consultando gli appunti di un simbolico diario riempito in cinquant’anni di radio e televisione.
Ho riletto, in questi giorni, tutto il libro e le pagine oggetto di questo articolo, che riguardano il caso Moro, costituiscono un doveroso omaggio al grande Autore.
Leggiamo alcune parti… “”Rapimento, prigionia e assassinio di Moro (Tre strade di Roma). Il terrorismo, le Br, la solidarietà nazionale, la politica di Aldo Moro, il PCI nell’ area di governo, la reazione americana, la sovranità limitata: è il lessico di un decennio drammatico, che culminerà nell’assassinio di Moro. Quell’evento ebbe per scenario tre strade: via Fani, il rapimento dello statista e l’ uccisione della sua scorta; via Montalcini, i 45 giorni della prigionia e l’ assassinio del sequestrato; via Caetani, la scoperta della Renault rossa usata da Moretti e Maccari per abbandonare tra piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure il corpo inanimato del Presidente della DC.
Per la prima volta i quattro carcerieri di Moro – Mario Moretti, Prospero Gallinari, Anna Laura Braghetti e Germano Maccari, e i brigatisti che parteciparono all’azione di via Fani, Bruno Seghetti e Franco Bonisoli in prima fila – ricostruiscono una tragedia umana e politica che ha sconvolto l’Italia. Tessere, discutere, persuadere. Sono gli strumenti che fanno, del modo di essere di Moro in politica, qualcosa di singolare. La logica dello scontro frontale non gli appartiene. Quando, il 16 marzo 1978, esce di casa per recarsi a cogliere il frutto di un’operazione politica, la “solidarietà nazionale” – di notevole, anche se rischiosa, raffinatezza tattica, e di ampio respiro strategico, seppure inedito e controverso – ignora che all’ angolo di una strada, in un tranquillo quartiere borghese, lo aspetta un commando deciso a interrompere delle vite umane e un corso storico… Ha inizio una fase che interrompe il disegno di dare al Paese una “democrazia compiuta”, grazie a un’ intesa più larga tra le forze politiche, e fanno cadere l’esclusione del Pci. Un giorno si saprà che i giorni di Moro erano stati scanditi, all’ interno di un piccolo appartamento di periferia, da tre uomini e una donna: Mario Moretti, Prospero Gallinari, Germano Maccari, Anna Laura Braghetti; carcerieri e, ciascuno a suo modo, uccisori del prigioniero, oggi sono disposti, insieme con Bruno Seghetti e Franco Bonisoli, partecipi della strage di via Fani, a raccontare la loro verità.
Ecco la tragedia di Moro nelle testimonianze, giorno per giorno, dei sequestratori di Moro.
Moretti, quella strage era veramente inevitabile?… “Assolutamente sì. Una volta deciso di prendere Moro, la scorta andava neutralizzata. Non c’ era altro modo che quello.”
E il suo compito Seghetti?…”Io avevo solo il compito di guidare una macchina, di prelevare Moro e portarlo via”. Quindi lei non ha sparato, quella mattina?…”No”. Si era addestrato?…”L’ addestramento era molto precario. Si faceva nelle grotte, nelle montagne intorno a Roma, ma si sparava poco perché mancavano i colpi. Il sequestro Moro venne fatto prima del viaggio in Libano, dove le forze rivoluzionarie palestinesi ci fornirono armi nuove. In via fani avevamo solo roba vecchia, residuati della guerra partigiana”.
Come vi disponeste, Gallinari, per l’ attacco alla macchina di Moro?…“Ci fu uno studio abbastanza curato. Moro era stato seguito per settimane, avevamo scelto il punto nel quale portare l’ attacco, e come; quindi ci disponemmo sul lato della strada in modo da potere, da una parte, bloccare l’ arrivo delle macchine e, dall’ altra, intervenire sul lato degli autisti. Comunque, niente di particolarmente complicato. Solo uno studio dei movimenti”… Lei quel giorno sparò…”Si, sparai”… Quanti eravate, in via Fani? Meglio, quanti componevano il gruppo di fuoco e quanti quelli di sostegno?…”Il problema è rifare un attimo mente locale, perché dopo tanti anni non è facile”.
È solo un fatto di memoria, Seghetti?… “Sì … solo di ricostruire … perché personalmente, non ho mai parlato di queste cose nei Tribunali, quindi è una cosa che …”La coglie di sorpresa?...”Che mi coglie di sorpresa perché non è mia abitudine ricostruire le cose per come sono andate”…Ma era un’ operazione militare, calcolata al millimetro, come lei ci ha detto, non una gita turistica. Non dovrebbe essere difficile ricordare quanti eravate…”No. Certo. Sarebbe facile ricostruire con i nomi, però, siccome non voglio far nomi” …Non le sto chiedendo i nomi … perché facendoli rivelerebbe l’ identità di qualcuno rimasto ancora nell’ ombra… “No, no, sono tutti emersi i nomi!”
Franco Bonisoli, componente della direzione strategica e del comitato esecutivo delle Br. Come era nato, nel vostro laboratorio politico, il progetto di un’azione così clamorosa?...“Da tempo avevamo l’ dea fissa di fare quello che noi chiamavamo il controprocesso: prendere cioè una grossa personalità dello Stato, o un rappresentante di quello che chiamavamo Sim – Stato imperialista delle multinazionali – e porci come contraltare al grande processo che veniva fatto alle Brigate Rosse attraverso i compagni del cosiddetto nucleo storico, i primi a essere arrestati. Nei 1976 iniziammo a pensarci seriamente, e con alcuni compagni andammo a Roma per iniziare un certo tipo di inchiesta.” Quanti brigatisti erano stati scelti per uccidere la scorta e sequestrare Moro?…“Nove”. Erano state fatte delle esercitazioni? “Sì! Alcune, si”. Dove, e come? “In campagna, dentro le grotte. Sparavamo alcuni caricatori per avere un minimo di padronanza dell’ arma”… Quanto era durata la preparazione del commando?… “Quella vera e propria un mese, due mesi, ma erano preparazioni che ognuno svolgeva nella propria città, andando a sparare con un’arma in qualche posto lontano, nascosto. Non erano veri e propri addestramenti, come si è detto più tardi. I giornali hanno parlato, in seguito, di un commando superpreparato, super … Ecco, non c’ era niente di tutto ciò!”
Via Montalcini… Braghetti, ricorda il momento in cui Moro fu portato al covo?...“Certo che lo ricordo! Era una giornata come tante quando a Roma si attende la primavera. Sentii gli elicotteri sulla città, scesi in strada vidi tornare la mia macchina! Sapevo che trasportava l’Onorevole Moro! L’ auto viene portata nel garage. Poi velocemente, salimmo verso l’ appartamento con una cesta dove avevamo nascosto il prigioniero, dove c’ era una sorta di cella che consentiva ai compagni di tenere nascoste le armi.
”Moretti, lei è l’unico ad aver conversato con il Presidente Moro. Era lei a preparare le domande del “processo”?… “Io ero quello che le faceva! Le domande erano frutto delle discussioni precedenti fra tutti i compagni delle direzioni strategiche, più che altro dell’esecutivo, ma anche di coloro che poi venivano messi a parte di quelle mie lunghissime conversazioni con Moro.”
Via Caetani. 9 maggio, mattina. Una Renault rossa esce dal garage di via Montalcini. Sale una piccola rampa e inizia il suo viaggio verso via Caetani, nel centro di Roma. Vent’anni dopo ho fatto lo stesso percorso, in automobile, con Germano Maccari.
Maccari, la macchina uscì dal garage, superò la rampa e cominciò il viaggio verso via Caetani. Nel bagagliaio, il corpo di Aldo Moro. “Sì, era avvolto in una coperta.”Con lei, a bordo, c’era Mario Moretti, vi siete scambiati qualche parola? “La tensione era altissima e non c’ era tempo omotivo per scambiare opinioni e parole. Occorreva fare attenzione che la macchina procedesse con un’andatura regolare, che si fermasse agli stop; e questo per evitare di essere fermati anche con un banale pretesto da una volante o da un vigile.”Chi era alla guida? “Mario Moretti, io sedevo accanto a lui.”
Il colloquio con Germano Maccari prosegue mentre entriamo in via Caetani. Maccari, riconosce la strada? “Si. È via Caetani. Qui l’organizzazione aveva provveduto a lasciare una terza macchina parcheggiata, in modo di avere a disposizione, in qualunque momento, un posto libero dove mettere la Renault rossa con il cadavere del presidente Moro. Posteggiamo l’auto nello stesso punto in cui venne lasciata la Renault.” Da quel momento, tanti anni di latitanza. Nessuno fece il suo nome, tutti parlavano del quarto uomo, di un fantomatico ingegner Altobelli che in realtà era lei: Germano Maccari. Poi la sua confessione, e adesso si prepara a entrare in carcere. Questo avviene mentre aspetta dalla sua donna la nascita di un bambino. È motivo di grande consolazione, per lei, ma credo che possa farla riflettere ancora una volta sull’iniquità di tutta questa storia…“Certo, per me l’idea di avere una famiglia, dei figli, è stata possibile soltanto dopo la confessione. Prima di allora ho represso dentro di me quel desiderio, e solo ora la cosa si è resa possibile. Ho trovato una compagna che ha saputo starmi vicino in questo periodo, che ha accettato l’idea di sapere che il padre di sua figlia dovrà stare per un certo periodo in carcere.”
Nei 55 giorni del sequestro, Roma era immersa nella primavera e lacerata da uno scontro senza precedenti tra le ragioni della politica e quelle, semplicemente, umane. I canali di comunicazione tra queste due dimensioni andavano rapidamente chiudendosi: un dramma nel dramma.
Di essa, Giovanni, il figlio di Aldo Moro, mi ha dato questa testimonianza lucida e intensa. Se non le dispiace, torniamo alla vicenda cruciale, cioè a via Fani. Chi c’era? Solo brigatisti, oppure anche lei ha dei dubbi sul numero dei partecipanti al sequestro e all’eccidio della scorta?… “Non nutro, personalmente, particolari dubbi. Però, essendo soltanto ed esclusivamente interessato alla verità, prendo atto che la quantità e la identità dei soggetti presenti a via Fani è estremamente variabile, a seconda delle fonti e sulla base delle informazioni emerse nel corso di questi anni. Questo è uno dei capitoli sui quali sarebbe bene arrivare a una chiarezza definitiva. Gli stessi processi hanno continuato a scoprire persone di cui prima si ignorava l’esistenza. Sì, direi che è uno dei capitoli su cui si deve fare chiarezza sia dal punto di vista del numero, ripeto, sia da quello dell’identità.” Spingo un po’ più avanti la domanda: si torna a parlare degli infiltrati tra le Br, è un’ipotesi sostenibile?… “È un’ipotesi e qualcosa più di un’ipotesi, visto che sta agli atti non solo dei processi, ma anche delle diverse commissioni parlamentari che negli ultimi vent’anni hanno lavorato, raccogliendo, tra l’altro, dichiarazioni ufficiali secondo cui esistevano infiltrati.” Lei nutre dei dubbi anche sul numero dei carcerieri di Moro?… ”Di tre, siamo sicuri. Al quarto si sono attribuite varie identità. Poi si è fissata – lo ha ammesso lui stesso – in Maccari. Sembrerebbe, stando ad alcune testimonianze processuali ufficiali, che le descrizioni non coincidano con la figura di Maccari, e questo è un altro dei punti su cui sarebbe bene avere una chiarezza definitiva. Anche perché, non dimentichiamolo, fino a un anno e mezzo fa, da parte dei terroristi si negava addirittura che esistesse un quarto uomo.”
Germano Maccari è morto di infarto, nel carcere di Rebibbia, il 26 agosto 2001. Dieci giorni dopo, in un’intervista, Lanfranco Pace – figura di rilievo, con Franco Piperno e Oreste Scalzone, di Potere operaio e Autonomia operaia – dichiara che a uccidere Moro fu Maccari, e non Moretti, aggiungendo di averlo saputo direttamente dal fantomatico “quarto uomo”, l’Ingegner Altobelli, cioè da Maccari stesso. Secondo il racconto di Pace, nel momento di sopprimere il prigioniero, Moretti era in preda a una crisi di panico, gli tremavano le mani, provò ugualmente a sparare, ma la pistola s’inceppò. Allora si rivolse a Gallinari, il quale però singhiozzava. Fu a quel punto che Maccari, scansando l’uno e l’altro, si fece avanti “con la mitraglietta Skorpion” e finì il prigioniero.
Nell’intervista, Pace riconosce che Maccari era nettamente contrario all’uccisione di Moro: «Considerava quell’omicidio un’ignominia assoluta. Ma prese su di sé il peso di quella decisione tremenda perché si riteneva un soldato. Dopo quarantotto ore, abbandonò le Brigate rosse. Io lo incontrai all’università la settimana successiva. Era irriconoscibile. I capelli gli erano diventati tutti bianchi».
Finora nessuno dei carcerieri di Moro ha confermato o respinto quanto si dice nella sconcertante intervista. Spero, dopotutto, che continuino a tacere. Ma nel frattempo, pure prendendo le «rivelazioni» di Pace con le molle, e in generale non tenendole in alcun conto, gli addetti ai lavori si pongono delle domande: perché solo adesso, cioè dopo la morte di Maccari, Pace gli addossa quella confessione? A chi giova, a quale verità? O è, semplicemente, protagonismo? Pace, d’altronde, dichiara di essere un incallito giocatore di poker. Ma perché raccontare la scena dell’omicidio in quel modo caricaturale: Moretti che trema e non ce la fa, Gallinari che singhiozza? Bruno Seghetti, che partecipò all’azione di via Fani, è lapidario. «La verità è già stata detta e scritta, testimoniata e sancita. Il resto è voglia di stupire.»””
Sin qui il libro di Zavoli…
Ora, come di consueto, riflessioni e integrazioni… Al riguardo osserviamo che le conclusioni di Zavoli mettono in luce alcune perplessità, lacune ed omissioni sulle dichiarazioni dei terroristi che trovano risposta e collimano con la verità oggi raggiunta che è quella di cui tratta la Commissione Parlamentare d’inchiesta Moro 2 presieduta da Giuseppe Fioroni, nel corso dell’ultima legislatura… Chi avesse interesse, può leggere l’articolo su questa testata… (https://www.attualita.it/notizie/politica/nuove-verita-sul-caso-moro-35911/).
I risultati della Commissione Fioroni sono sconcertanti. Quattro anni di lavoro, migliaia di documenti desecretati dagli archivi dei Servizi segreti italiani, consegnati all’Archivio centrale dello Stato in seguito all’importantissima (e finalmente realizzata!!) “Direttiva Renzi” del 2014, con centinaia di testimonianze, che hanno consentito nuove prove della Polizia scientifica e dei RIS dei Carabinieri che hanno rivelato molti nuovi e sorprendenti elementi. Ricordiamo che il giornalista Lanfranco Pace, citato da Zavoli, ospitato anche in trasmissioni TV, a “IL FOGLIO” di dicembre 2011, sostenne, come raccontato in precedente articolo su questa testata: “Brigatisti rossi? Solo poveri ragazzi pazzi, schematici e dogmatici…” Certo, quanta benevolenza per i ragazzotti brigatisti, definiti “pazzi, schematici, dogmatici”, invece che vili inqualificabili deliranti assassini, ampiamente condannati dalla coscienza della migliore Italia e dalla Storia, che sparavano alle spalle e scappavano! Ideologia avvizzita? Che non lascerà mai del tutto questa terra e sempre vivrà in noi? Forse vivrà ancora in Lei, Signor Pace! Racconti questi Suoi travagli culturali alle Famiglie del Maresciallo Oreste Leonardi e dell’Appuntato Domenico Ricci, quegli eroici Carabinieri trucidati in via Fani unitamente ad altri tre splendidi Agenti della Polizia di Stato Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino in quel tragico 16 marzo 1978; chieda Loro se quella folle ideologia vivrà sempre in noi! A proposito, il Signor Pace, aiuti gli Italiani onesti e laboriosi, oggi gravati addirittura da problemi di sopravvivenza, grazie a politiche inadempienti che si sono susseguite da lunghi anni nella rapace e dannosissima guerra di rapina per il potere, cosa sono state le BR, che Lei, Signor Pace, dovrebbe conoscere. Infatti, come abbiamo letto su La Repubblica del 03 marzo 1987, a pagina 17, Lei faceva parte delle Br, come ha sostenuto Luciana Faranda, ma il suo ruolo, nell’organizzazione, fu sempre marginale. Fu lo stesso Pace a chiedere di entrare nelle Br, ha ricordato la dissociata. Era il 1977. “La sua domanda venne esaminata dalla direzione di colonna. Valerio Morucci si assunse il compito di verificare il candidato e di stabilire i contatti. Dopo poche settimane, Pace venne inserito nella Brigata servizi di cui io ero responsabile. Quando (con Morucci) decidemmo di uscire dalla colonna, ha raccontato la dissociata, ci rivolgemmo a Pace per trovare un rifugio. Per un paio di giorni fummo sistemati in un appartamento. Di qui ci trasferimmo a casa di un giornalista di un quotidiano romano e infine nell’abitazione di Giuliana Conforto dove siamo stati arrestati”.
Strana, ma a questo punto va ricordata la circostanza che la mitraglietta Skorpion con cui fu ucciso il Presidente della Dc fu ritrovata proprio nell’appartamento di via Giulio Cesare 47, di proprietà di Giuliana Conforto, figlia di Giorgio Conforto, alias agente “Dario”, capo della rete spionistica del Kgb della Russia comunista in Italia.
A questo punto, sarebbe bene che si chiarissero tutti questi spaventosi intrecci, che si approfondisse una volte per tutte il gran tema delle aree della contiguità mai scoperte: cioè quelle aree della politica, del sindacato e della cultura in cui le Br hanno sempre goduto di forte protezione..
C’è chi blatera e se la canta alla grande ancora oggi per una generale sanatoria sugli anni di piombo, idea vagheggiata autorevolmente anche da importanti ambiti politici; noi diciamo invece dal nostro osservatorio di liberi cittadini e liberi pensatori, a chiare lettere, che non si può chiudere alcunchè se tutta la verità non solo processuale ma anche storica, non sia stata raggiunta!
Forse il Processo Moro andrebbe riaperto per chiarire molti, moltissimi inquietanti aspetti!