Roma, 12 aprile 2022 – Pier Paolo Pasolini, nato il 5 marzo del 1922, è stato innanzi tutto un grande protagonista della comunicazione.
Incurante dello scandalo che suscitava in una società italiana profondamente retriva, ha sperimentato tutti i linguaggi.
Attraverso poesia, cinema, riflessioni, corsivi, le invettive affidate a giornali, periodici, convegni e le apparizioni televisive, Pasolini ha passato al setaccio tutti gli aspetti più contraddittori della realtà del suo tempo.
In occasione dei 100 anni dalla nascita, la Rai ha previsto una programmazione che abbraccia tutte le sfaccettature di un indimenticabile uomo di cultura.
Questo libro racconta il cammino di un intellettuale il cui pensiero ancora oggi è essenziale per fare luce sul presente odierno.
Fulvio Abbate, con le armi di una scrittura perfino poetica, restituisce la vita, le ragioni, l’eredità, i luoghi, la sostanza umana, familiare e storica, affidandosi anche alle parole di chi ne ha condiviso la breve vita, fra questi: Laura Betti, Carlo Lizzani, Ettore Scola, Bernardo Bertolucci, Franco Citti, Dario Bellezza, Marco Pannella, Adele Cambria, Mario Schifano.
Scrive Fulvio Abate:“Ho conosciuto Pasolini quale grande scrittore quando, da studente di Liceo Classico, si leggeva e si leggeva di tutto. Poi, quando nel 1968 pubblicò la poesia in cui criticava fortemente i giovani studenti figli di borghesi per aver aggredito le Forze dell’Ordine negli incidenti davanti alla Facoltà di Architettura di Valle Giulia, a Roma, lo ammirai. Si, i Poliziotti, scrisse, figli di operai e contadini che vivevano nelle borgate, erano poi i figli di quella gente che i sessantottini tanto avevano a cuore dalla quale però erano notoriamente tanto lontani…”
Fulvio Abbate è nato nel 1956, e vive a Roma. Scrittore, opinionista, critico d’arte e inventore della televisione web Teledurruti, ha pubblicato, fra l’altro, romanzi tra cui Pasolini raccontato a tutti (2014).
Iniziamo a leggere parti del libro.
– da pag. 23. “”Fra i pochi intellettuali italiani a essere riusciti a realizzare un consapevole racconto civile c’ è stato appunto lui, Pierpaolo Pasolini. Poeta, scrittore, polemista, regista che ha saputo mettere al mondo un irripetibile paesaggio cinematografico e di memorabilie – Le ceneri di Gramsci, Ragazzi di vita, Accattone, Il Vangelo secondo Matteo, Il Decameron, Salò e perfino articoli volanti di giornale, raccolti infine sotto la dicitura di Scritti corsari e Lettere luterane, dove l’ uomo, il cittadino, il compagno prova a spiegare la mutazione antropologica, il “genocidio culturale”, il precipizio verso cui stava correndo la società italiana. Pasolini, scomparso da quasi cinquant’anni, una vita, molte vite intere. Mostra tuttavia ancora oggi la realtà del peso della sua assenza. Che poi è la prova di un vuoto di pensiero. Erano i primi giorni di novembre del 1975, quando all’Idroscalo di Ostia venne ucciso da un ragazzo di borgata, un diciassettenne, Pino Pelosi. Questo afferma il processo di primo grado. In verità, lo svolgimento criminale, la dinamica omicida reale resta tra i molti, inestricabili misteri italiani. Omicidio in concorso con ignoti, concede proprio la sentenza di primo grado del Tribunale. Anche le successive versioni, dove il Pelosi in parte ritratta, sostenendo la propria innocenza, lasciano comunque ampi spazi bianchi occupati da ulteriori numerosi dubbi, cancellature, segni di biro nera: tre persone dall’ accento meridionale, intanto che picchiavano a morte lo scrittore, gli avrebbero gridato, “sporco comunista “ e altro. A molti infatti sembrò, la morte di Pasolini, un delitto politico. Tra gli attori: malavita, bande della criminalità romana, la cosiddetta Banda della Magliana, servizi segreti, mafiosi e fascisti in libera associazione per delinquere. Con la complicità del “Palazzo”. Un favore sicuro ai potenti. Certezze però poche.””
– da pag.225.”” L’ eterno ritorno di Pino Pelosi. Trent’ anni dopo, Pino Pelosi, che i cronisti amano chiamare “la Rana”, giusto per confermare il copione “pasoliniano” dei soprannomi romanzeschi, cambia la sua versione dei fatti: “Non sono stato io”. lo dice in televisione, lo racconta una grande narratrice “esperta” di “nera”, Franca Leosini, durante un’intervista trasmessa dal suo programma: “Le ombre del giallo”. È un Pelosi messo bene a parlare, giacca e cravatta, un uomo adulto, ormai. Franca Leosini è la capofila di un genere di format, accanto allo scrittore Carlo Lucarelli e altri ancora, che scava nei faldoni processuali, e anche nel profondo dei volti e delle parole di protagonisti, dei criminali. Pelosi, nel racconto di “nera” di Franca Leosini in onda i primi di maggio del 2005, afferma di tre sconosciuti, tre persone di mezza età che parlavano con un accento del Sud. Tre persone adulte, “Che adesso certamente saranno morte”. Per molti anni qualcuno ha sostenuto in sede processuale la presenza di un’auto, una Fiat 500 blu, targata CT, quella notte all’ Idroscalo. Notizie che spingono verso la riapertura del caso, l’arrivo di un nuovo fascicolo. La “vedova” Betti ne sarebbe stata contenta, lei era infatti fra coloro che, attraverso la sentenza del processo di primo grado, hanno sempre parlato di un Pelosi omicida in concorso con ignoti. E il “Palazzo” come volenteroso e sicuro mandante. Secondo la nuova versione, gli assassini, i tre, “Che oggi sono morti”, terminato il pestaggio sarebbero andati via in macchina. A quel punto Pelosi, atterrito, si impossessa dell’Alfa GT e inavvertitamente nell’ ansia di allontanarsi dall’ incubo, passa sopra il corpo di un Pasolini rantolante, provocandone per errore, fatalmente, la morte. Pino Pelosi confessa soltanto a distanza di molto tempo dei fatti un segreto di trent’ anni prima, perché entrambi i suoi genitori sono morti. Le minacce non gli farebbero più paura. L’uomo che fa questo racconto ha 47 anni. Un lavoro vero e proprio non sa però cosa sia. Sgobba, fatica da “sfasciacarrozze”, si arrangia, ma la sua fedina penale non si ferma all’uccisione di Pasolini. Non ha neppure la patente: “Ma com’è che qui i grandi criminali escono dar carcere, e io niente?” Gli storici avvocati di parte civile Nino Marazzita e Guido Calvi, presenti nello stesso studio, lo osservano come accade con i casi umani risaputi. Convengono comunque su un fatto: non è giusto che nessuno gli dia un lavoro pulito. Le cose adesso stanno così: le parole di Pelosi, l’uomo condannato a 9 anni di carcere per l’assassinio, l’ossessione processuale in un Paese che non riesce a portare mai a compimento un giudizio sui suoi grandi crimini contro la sensazione di una perdita intellettuale e critica riparabile. Bisognerà pure fare una scelta? Ora che sono trascorsi oltre quarant’anni e i reperti di quella notte dimorano, esposti al pubblico, al Museo di Criminologia di Roma.
Nel frattempo Sergio Citti, benché ammalato, ha chiesto a sua volta di essere chiamato a testimoniare. Citti ha perfino un nome da fare ai Magistrati, e poi una convinzione radicata: “Pierpaolo non voleva morire, uno che vuole morire non va a Milano a rifarsi i denti un mese prima”. Anche Oriana Fallaci, amica di Pasolini, ebbe modo di parlare di un testimone misterioso e perfino ne scrisse: “”Nossignori, l’intervista col ragazzo-che-sa non appare col nome del ragazzo-che-sa. Non daremo il nome di quel ragazzo. Non ne forniremo neppure i dati somatici, nella speranza di non farlo riconoscere dagli assassini di Pasolini prima che la Polizia possa trovarlo, interrogarlo e proteggerlo. Oltretutto la sua non è un’intervista data spontaneamente con gioia. È strappata, estorta pezzo per pezzo, giorno per giorno, attraverso preghiere, chiacchiere, promesse, a un poveretto sconvolto dal terrore di essere punito da una “pistolettata in bocca”. Un poveretto che appartiene al mondo dei prostituti romani, 5000 al colpo, 10 se va bene, e zitto sennò ti ritrovi morto anche te sul sentiero di qualche borgata. Costi ciò che costi, riteniamo e ritengo che non spetti a noi consegnarlo alla sua fine. A noi spetta soltanto registrare le sue frasi morsicate, le sue ammissioni agghiaccianti, le sue piccole rivelazioni terribili, insomma la conferma che Pasolini non fu ucciso da Pelosi e basta: fu ucciso da un gruppo di teppisti che lo seguivano, che gli tesero un agguato per rapinarlo, punirlo, magari su incarico altrui, quindi il testimone di cui parlavi la scorsa settimana aveva visto bene, luna o non luna. Io sputo il mio disgusto su chi vide ammazzare Pasolini e invece di corrergli in aiuto stette zitto nella sua baracca ad attendere che gli assassini scappassero via. La mia moralità, sia personale che professionale, mi impone di non tradire la parola data a chi mi raccontò che Pasolini era stato ucciso da tre persone non da una, e che “non lo dicessi per carità, sennò avrebbero fatto fuori anche me”” così Oriana Fallaci, molti anni fa, quando ancora non era stata risucchiata dalle sabbie mobili dell’ossessione della guerra di civiltà.
Pelosi e il fantasma di Pasolini, si intitola la postfazione che Dacia Maraini ha scritto al volume “Io, angelo nero”, memoria dedicata da Pino Pelosi all’ omicidio di Pasolini. Vale la pena leggerne qualche frammento: “”Se Pasolini avesse voluto architettare una vendetta postuma non avrebbe potuto inventare niente di più inquietante e romanzesco: il suo assassino, da ragazzo indifferente, sbagliato, semianalfabeta, violento, bugiardo, apatico ed egoista, si è trasformato, attraverso la familiarità col fantasma della sua vittima, come lui stesso racconta, in un giovane uomo inquieto, pensoso, capace di soffrire e quindi anche di capire ciò che prima gli era estraneo, voglioso di apprendere e perfino di scrivere. Nella sua vita randagia era prevista anche qualche piccola concessione sessuale in cambio di soldi ““, prosegue Dacia Maraini, “”Eppure Pelosi insiste che non è mai stato una marchetta”. “Pelosi dice che Pasolini era conosciuto per il suo masochismo. Anche noi amici lo sapevamo. Pasolini non avrebbe mai fatto del male a nessuno, mai avrebbe minacciato e violentato. Lui sì, cercava qualcuno che, in un gioco erotico, lo malmenasse un poco. Era questo il suo segreto. Di solito i ragazzi a cui si accompagnava sapevano che era un gioco e stavano alle regole di quel gioco. Escludo, conoscendolo, che Pasolini lo abbia minacciato, che abbia voluto penetrarlo con un bastone. È probabile invece che abbia riso su quel falso pudore del ragazzo per provocare una reazione e suscitare quella lotta giocosa che era la sua preferita. Proprio per farsi picchiare, come scrive con molta sincerità nel suo ultimo romanzo, Petrolio. Non certo per farsi ammazzare””. La nuova versione di Pelosi o piuttosto la semplice riflessione sulle perdite irreparabili di uno scrittore coraggioso? Cosa scegliere? Forse non c’ è più tempo per rispondere. Qualche giorno dopo le sue nuove rivelazioni, Pino Pelosi detto “la Rana” è stato arrestato sulla strada che da Orte porta ad Attigliano. Nella borsa di una ragazza che stava insieme a lui sono stati trovati infatti 400 grammi di cocaina. L’ immagine successiva ora che sono trascorsi ancora un po’ di anni, è di un uomo con una tuta arancione che spazza l’ Idroscalo di Ostia, il luogo dell’ assassinio. L’ uomo è Pino Pelosi, goffo, invecchiato, una caricatura della storia. Più che di nemesi crediamo si tratti di una pena alternativa al carcere. Così crediamo. Almeno credevo, poi invece l’ho incontrato, una sera a Trastevere e lì mi è sembrato un povero diavolo, un ex ragazzo che si è ritrovato dentro una storia più grande di lui, povero Pino Pelosi.” Sin qui Dacia Maraini””.
– da pag.233. “”La prima volta che Silvio Parrello ha raccontato la sua verità sul delitto Pasolini è stato nel maggio del 2005 all’autore di queste pagine, in un libro intitolato “C’era una volta Pier Paolo Pasolini”. Nel frattempo nuovi elementi sono giunti fino a noi, e la stessa Magistratura non ha potuto fare a meno di prendere in seria considerazione la testimonianza dello stesso Parrello, ora agli atti di una nuova inchiesta che riapre il caso, affidata al Giudice Francesco Minisci, un giovane che all’ epoca dei fatti aveva soltanto due anni. Roma, 25 luglio 2011, ore 17.34, conversazione con Silvio Parrello, “Pecetto”.
“Chi c’era all’Idroscalo?” “Da quello che ha detto Pelosi c’ erano altri tre, ma per me in totale erano minimo otto.” “Va bene ma chi potrebbero essere, secondo lei?” “Malavita romana e uno che aveva un plantare numero 41 piede destro, va aggiunto che quella notte non andarono all’ Idroscalo a fare sesso, bensì, come spiega altrove Sergio Citti, a recuperare le pizze di Salò che erano state misteriosamente trafugate dalla Technicolor sulla via Tiburtina da alcuni elementi che però si conosceva molto bene. Aggiungo che Pelosi conosceva già da tempo lo scrittore.” “Ma lei cosa pensa che davvero sia venuto quella notte?”… “Secondo le mie ultime, diciamo pure indagini, il ragazzo non è affatto fuggito dal posto, è verissimo che lui avrebbe preso l’auto di Pasolini per allontanarsi dall’Idroscalo insieme ad altri componenti della spedizione punitiva contro lo scrittore, ma l’Alfa in realtà dopo pochi metri fu bloccata e Pelosi scese per vomitare, a quel punto i suoi compari decisero di lasciarlo sul posto e fuggirono da soli con l’ auto di Pasolini. Finché, giunti sulla Tiburtina, abbandonarono l’auto e fecero ritorno alle proprie case. Va aggiunto che i fratelli Borsellino, ai quali Pelosi attribuisce il furto delle bobine di Salò, abitavano proprio nel complesso della Ina-Casa sulla Tiburtina”.
“Torniamo alle indagini, cosa sarebbe accaduto, secondo lei, se gli inquirenti le avessero approfondite?” “Intanto sarebbero arrivati subito dal proprietario del plantare ritrovato nell’ abitacolo dell’Alfa 2000, in quanto nell’ ambito della malavita romana, si intende in quegli anni, erano soltanto in tre a portare il plantare e non certo tutti e tre piede destro e 41”. È stato solo in seguito che Antonio Pinna, malavitoso romano dei “grattacieli” di Donna Olimpia, cioè il giorno dopo il delitto, portò l’auto in riparazione in una carrozzeria del quartiere Portuense. Il primo carrozziere che la vide, Marcello Sperati, si rifiutò di ripararla, perché secondo lui il veicolo era sporco di sangue, fango e malamente danneggiato. Dovette intervenire un secondo carrozziere per effettuare la riparazione. “Cosa dobbiamo allora pensare?”, “Un’altra macchina, c’ è da pensare questo, leggendo attentamente la perizia di parte civile, scritta da Faustino Durante. Non può essere stata la Giulia GT 2000 di Pasolini perché questa non recava i segni dovuti sulla coppa dell’olio, il frontale e il terminale della marmitta. “Lei personalmente, Parrello, quali conclusioni ne ha tratto?” “Da tempo nel quartiere di Donna Olimpia si sapeva che quel personaggio, proprio Antonio Pinna, assiduo frequentatore di Pasolini negli ultimi tempi per motivi che non sono chiari, il 14 Febbraio 1976, il processo iniziato, scompare nel nulla, la sua auto fu rinvenuta parcheggiata a Fiumicino, sempre nel quartiere si dice che fu eliminato perché sapeva la verità sulla morte di Pasolini. Due giorni prima, il 12 Febbraio, sempre nell’ambito dell’ inchiesta sulla morte di Pasolini, furono arrestati i fratelli Borsellino.” “E allora Pelosi che ruolo effettivo avrebbe avuto in tutta la vicenda?” “È stata un’esca a sua insaputa, secondo me.”
In televisione, durante la trasmissione di Franca Leosini, sempre a mio parere, ha detto la verità, cioè che non poteva conoscere i 3-4 aggressori giunti sul posto con l’Alfa 2000, che era invece di colore blu, ma lui deve comunque sapere il nome di chi gli ha dato i soldi per menare Pasolini in quanto frocio, questo stando all’articolo scritto dalla Fallaci dietro testimonianza di quel Gianfranco Sotgiu che assistette le due brevi telefonate fatte da Pelosi al bar Grand’Italia. Pare che Pelosi stesse parlando con un certo Franz, o Frank, dicendogli: “Io ci sto, ma solo per un po’ de botte, non oltre, e porta er dollaro”. Per avere scritto queste cose la Fallaci fu denunciata a suo tempo. “Scusi l’insistenza: ma, tornando su Pelosi, qual è la sua credibilità visto che ha sempre dato la sensazione di parlare “a rate” calcolando il proprio tornaconto?” “Innanzitutto è stato un ragazzo sfortunato per essersi ritrovato in quella circostanza, sfortunato doppiamente perché non poteva essere condannato a 9 anni, in quanto dagli atti ufficiali risulta che lui, minorenne, si sarebbe soprattutto difeso per poi scappare terrorizzato. Ma sarà scappato davvero dall’Idroscalo?” Il 2 novembre del 2009 Silvio Parrello ha visto per la prima volta Pino Pelosi sul posto del delitto, all’Idroscalo, lo ha visto in tuta da lavoro, intento a ripulire il giardino sorto dove era un tempo la discarica. A un certo punto un ragazzo, riconosciuto nel giardiniere l’assassino di Pasolini, gli si è scagliato contro per picchiarlo. Silvio Parrello in quel momento è intervenuto per sedare la lite, dicendo al ragazzo di lasciarlo stare: “questo non c’ entra niente, è stato incastrato, è stata un’esca”. Pelosi a quel punto avrebbe replicato: “Sì, vallo a dire ai Magistrati, io per difenderlo, m’hanno pure rotto er naso”. Questo, sempre per Parrello dimostrerebbe che Pasolini e Pelosi si conoscevano già. Parrello giura cioè sulla buona fede della“Rana”.””
Sin qui parti dell’interessante libro.
Ora leggiamo quanto recentemente scritto dalla grande giornalista d’inchiesta Simona Zecchi su Oggi Settimanale, nella settimana del 3-10 marzo (titolo originale “Dimmi chi ha ucciso Pasolini”). “”L ‘omicidio mai risolto di Pasolini, il cui corpo massacrato è stato rinvenuto la mattina del 2 novembre 1975, trascina con sé da decenni domande senza risposta che continuano a mantenere accesa la richiesta di verità sul movente che ha portato al massacro dello scrittore. E sui reali esecutori. Tuttavia sia il processo, che ha visto la condanna del minorenne Giuseppe Pelosi a 9 anni e 7 mesi, sia le quattro riaperture di indagini, culminate tutte in archiviazioni, hanno seminato nel tempo innumerevoli indizi ed elementi che se messi tutti in fila e letti in controluce conducono a un’altra verità rispetto a quella sancita dalla Magistratura nelle battute finali del processo dell’aprile del ‘79. Una condanna, questa in Cassazione, che già a partire dalla sentenza d’appello, non riconoscerà più il “concorso con ignoti” asserito in primo grado. Le ultime indagini preliminari aperte nel 2010 hanno raccolto documentazione e lavoro investigativo cospicui: in tutto 7 faldoni. Ma alla fine, nel 2015, il pm Francesco Minisci chiederà l’archiviazione che la GIP confermerà. Centoventi sospettati, diversi esami svolti dal RIS sui reperti e la conseguente estrazione dei DNA per individuarne i profili. Risultato: incerta la datazione dei profili sui reperti e un database del Ministero che fa cilecca. E ancora: nuove interrogazioni, diversi approfondimenti costellati da ritrattazioni, omissioni, piste poco approfondite. Oltre alla foto dello scomparso Flavio Carboni su cui gli inquirenti anche si erano focalizzati per i suoi legami emersi nel tempo con esponenti della criminalità organizzata e la destra eversiva, in quei faldoni hanno fatto capolino poi le carte delle inchieste aperte in precedenza dopo il processo. La Procura di Roma, infatti, aveva riaperto altre tre volte le indagini tra il 1987 e il 2005. In quest’ultimo caso Pelosi, ribaltando le sue precedenti dichiarazioni, rivelò che quella notte con lui c’erano altre persone e che Pasolini non usò mai violenza su di lui. Tanti altri sono gli elementi su fonti aperte che ci consegnano un’altra verità ma è sul versante del movente che i passi fatti risultano nulli. Anche se le testimonianze relative all’espediente utilizzato per condurre lo scrittore all’Idroscalo (il furto delle ultime scene di Salò o le 120 giornate di Sodoma presso lo stabilimento Technicolor) presenti nelle carte dell’ultima inchiesta, uno spiraglio aperto lo lasciano. Ne parliamo con l’ex agente infiltrato della Dea Nicola Longo che a Oggi per la prima volta rivela: «Fui io nel 1976 a recuperare le pizze di quei film attraverso l’aiuto di un pezzo grosso della criminalità ormai deceduto, che per cercare di allentare un po’ la mia presa sulla banda, al tempo, mi disse che avrebbero fatto ritrovare le pellicole. Mi portarono il campione di alcune scene sottratte dal Casanova di Fellini (anch’esso tra le bobine rubate nell’agosto del 1975) per provarmi che stavano dicendo il vero. Così acconsentii: fecero ritrovare tutta la merce rubata, comprese le pizze di Salò, nell’armadio blindato da dove erano state rubate». In precedenza, la produzione di Salò aveva deciso non sottostare ad alcun ricatto e di chiudere il film con altre scene di scarto, ma il regista aveva continuato a cercarle con l’aiuto di Pelosi, Sergio Citti e altri fino alla notte del 1° novembre con la sua Alfa GT. L’auto, che ancora tanti dettagli poteva rivelare nelle indagini successive, è stata ritrovata dopo 46 anni: non fu mai demolita come dichiarato invece da familiari e amici. Ormai irriconoscibile e sotto restauro di un privato, è l’ennesima delle verità sottratte a questa storia. Di certo, riguardo alle bobine, c’è che il criminale che le fece riconsegnare non chiese nulla in cambio, come ci conferma Longo, l’ex Serpico infiltrato in tante operazioni fuori e dentro l’Italia che risolse la questione su richiesta della società produttrice americana del Casanova. Quello che resta fuori da queste infinite code giudiziarie, però, sono le carte sparse tra documenti e lettere che conducono tutte alla pista di Piazza Fontana e della strategia della tensione. Una lettera datata 24 settembre 75 spedita da Pasolini a Giovanni Ventura implicato nella strage e allora in carcere, rivela l’esistenza di un carteggio tra i due pubblicato da chi scrive. In quel carteggio l’ex neofascista indica a Pasolini le correnti politiche della DC dietro le stragi e l’esistenza di un dossier pericoloso.””
La grande scrittrice d’inchiesta Simona Zecchi, che leggiamo sempre molto volentieri, ha scritto anche i due importanti libri che ho presentato sul giornale Attualita’.it di cui è Direttore Salvatore Veltri.
Per chi volesse approfondire qui li trova.“Pasolini, massacro di un poeta” e “L’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini” (Ponte alle Grazie).
Concludo con ricordi personali.
Fulvio Abbate all’inizio ha scritto: “Poi, quando nel 1968 pubblicò la poesia in cui criticava fortemente i giovani studenti figli di borghesi per aver aggredito le Forze dell’Ordine negli incidenti davanti alla Facoltà di Architettura di Valle Giulia, a Roma, lo ammirai. Si, i Poliziotti, scrisse, figli di operai e contadini che vivevano nelle borgate, erano poi i figli di quella gente che i sessantottini tanto avevano a cuore dalla quale però erano notoriamente tanto lontani…”Quel giorno a Valle Giulia ero presente anche io, Sottotenente di Complemento 21enne, con reparti dell’VIII Battaglione Mobile dei CC. Era il 1º marzo 1968, uno scontro violento di piazza tra manifestanti universitari e Polizia, nell’ambito delle manifestazioni legate al movimento sessantottino, in cui gli studenti tentarono di riconquistare la Facoltà di Architettura dell’Università di Roma, attaccando la Polizia, che la presidiava dopo averla sgomberata da un’occupazione. Fu l’inizio dell’ autunno caldo, nel corso del quale fui presente a numerosi incidenti nel polo universitario, tra i quali lo sgombero dell’Università di Roma in coincidenza della visita del Presidente USA Nixon. Tornando ad Ostia, splendida località ben conosciuta per il lungomare, gli stabilimenti balneari, i locali, i ristoranti, la gente; luogo di luce, mare, svago e bellezza. Piazza Gasparri, l’Idroscalo e dintorni, invece, ambito buio di malavita e mistero. Dal punto di vista operativo, leggendo di Pasolini e della sua tragica morte, si riaccende il ricordo personale di quel lontano 1975, quando fui inviato dal Colonnello Siracusano, indimenticato Comandante della Legione di Roma, a svolgere le funzioni di comandante in S.V. (sede vacante) della Compagnia di Ostia, nei mesi di gennaio e febbraio di quel tragico 1975 (quindi non più presente ad ottobre), per il trasferimento del titolare, il Maggiore Claudio Blasi, che ebbi molti anni dopo l’onore di avere quale autorevole Comandante di Divisione, durante la mia permanenza quadriennale al Comando Provinciale di Taranto. Per il bimestre ad Ostia, meritai una lettera di apprezzamento dal Comandante del Gruppo Roma II, il Ten.Col. Giorgio Burlando, per l’attivismo in Polizia Giudiziaria, in particolare nella zona di Piazza Gasparri e ad Acilia. Ad Ostia, tra le persone incontrate, anche di malavita del polo trasteverino da dove provenivo (dal 1971 al 76 Comandante del Nucleo Operativo della Compagnia Roma Trastevere),rividi il grande attore Maurizio Arena, conosciuto a Trastevere per motivi di servizio, che abitava in una villa nei pressi di Casalpalocco. Morì nel 1979.
Ho finito.