Roma, 16 novembre 2021 – ‘Il Divo e il Giornalista’ le mezze verità di un processo dimenticato, scritto dal giornalista Alvaro Fiorucci e Raffaele Guadagno, edito da Morlacchi nel gennaio 2019, il libro passa in rassegna tutti i passaggi di una vicenda e di due personaggi che raccontano il periodo più buio della storia d’Italia. A distanza di oltre quaranta anni dal sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro, avvenuto nel 1978, ancora emergono delle verità. Solamente a dicembre 2017 la seconda Commissione Bicamerale d’inchiesta presieduta dall’On. Fioroni ha certificato che in via Fani le Br non agirono da sole. Non era un mistero, ma è stato un segreto. Il libro è ricostruito con documenti dell’epoca, atti giudiziari, verbali di testimonianze, documenti riservati dei servizi segreti e molto altro. Tutti documenti poi confluiti al Tribunale di Perugia durante il processo per l’omicidio di Carmine Pecorelli, giornalista direttore di Op, ucciso la sera del 20 marzo 1979 con quattro colpi di pistola. Sul banco degli imputati come mandante Giulio Andreotti, come autore materiale Massimo Carminati più altri. Per istituire il processo i magistrati di Perugia, Fausto Cardella in particolare, hanno riunito tutte le indagini già svolte a Roma sull’omicidio Pecorelli, una prima volta nel 1979 e una seconda nel 1994. Le vicende sono tantissime e nel libro sono raccontate in modo lineare, nonostante la complessità degli eventi e la enorme mole di materiale. Dal 1979 in poi chi si è occupato da vicino dell’omicidio ha sempre sostenuto che non si è mai riusciti ad arrivare ai responsabili per “ enormità di moventi”. Pecorelli pubblicò articoli, servizi e inchieste esclusive spesso in anticipo anche di decenni. Svelò il caso Italcasse, persino i movimenti finanziari dell’allora sconosciuto ai più imprenditore milanese Silvio Berlusconi scrivendone nel 1978. Scrisse di frange dei servizi segreti deviati per far fuggire Guido Giannettini dopo l’attentato di piazza Fontana del 1969; di Licio Gelli e la P2; il misterioso “elenco dei mille” che avevano usato Sindona per portare illegalmente capitali all’estero, gli assegni con cui Andreotti – che fu Pecorelli a soprannominare il Divo – aveva girato dei fondi ritenuti illeciti ad alcune società tra cui una riconducibile al membro della banda della Magliana, Domenico Balducci. Ma soprattutto pubblicò per primo l’indirizzo del covo in cui le Br tenevano Moro, scrisse che il volantino numero 7 con l’indicazione del lago della Duchessa come luogo dove trovare il cadavere di Moro era falso e creato ad arte dai servizi segreti italiani su suggerimento della Cia per vagliare la reazione dell’opinione pubblica di fronte all’omicidio di Moro, in quel momento ancora in vita. Scrisse che in via Fani con i brigatisti c’erano pezzi dello Stato e della criminalità organizzata. Di Moro pubblicò stralci del suo memoriale e lettere che vennero ritrovati solamente nel 1990 in via Montenevoso a Milano. Insomma: Pecorelli aveva informazioni riservatissime e le pubblicava. Per questo è stato ammazzato. Da chi non si sa. Seppure leggendo il libro di Guadagno e Fiorucci si arriva a più di qualche idea. Come ha detto Cardella sempre nella requisitoria: “Poche, pochissime persone, se solo avessero voluto, avrebbero potuto raccontarci la dinamica di interessi e di rapporti personali che ha condotto alla deliberazione e all’attuazione dell’omicidio. Quella dinamica è stata ricostruita con grande fatica, aprendo qua e là i necessari spiragli, in un muro di silenzi complici o timorosi o interessati, di bugie e mezze verità”. In questo libro ci sono tutte le mezze verità.
Iniziamo la lettura di parti del libro. “”UNA STORIA INCOMPIUTA” prefazione di Fausto Cardella.
Carmine Pecorelli viene ucciso la sera del 20 marzo 1979, a Roma, in via Orazio. Poco prima delle 20.40, ora in cui la Centrale Operativa dei Carabinieri riceve la segnalazione del delitto. Viene trovato riverso al posto di guida della sua autovettura, la quale è posta di traverso alla strada, con le ruote posteriori sul marciapiede: Pecorelli era stato attinto da quattro colpi di arma da fuoco. Ma chi era Carmine Pecorelli e perché il processo per il suo omicidio è diventato un contenitore di documenti diversi e tutti altrettanto importanti per la storia della nostra Repubblica?
Carmine Pecorelli era uno spregiudicato e scanzonato avventuriero della notizia. Una passione civile affermata con troppo chiari accenti di sincerità per non essere autentica, anche se posta al servizio di valori e di scelte discutibili. Così viene tratteggiata negli atti del processo la figura di Carmine Pecorelli,editore, direttore e giornalista di una rivista settimanale, “OP” – che sta per Osservatorio Politico – che invano avreste cercato nelle edicole, ma che puntualmente arrivava sulle scrivanie di quelli che contavano, e che leggevano con l’apprensione di trovarvi qualcosa che li riguardasse e poi con compiaciuta curiosità, se riguardava altri. Sta di fatto che “OP” è stato l’unico organo di stampa a pubblicare, nella fase del sequestro, alcune lettere di Moro ai propri familiari, lettere che erano state personalmente consegnate da un funzionario della Presidenza del Consiglio alla moglie dello statista.
Fausto Cardella Procuratore Generale della Repubblica di Perugia””
– da pag.67. “”ANDREOTTI INDAGATO” Il nome del Senatore Giulio Andreotti, sette volte Capo del governo, ventisette volte Ministro, in Parlamento dal 1948, Senatore a vita dal 1991, è nel registro degli indagati della Procura della Repubblica di Roma dal 14 aprile 1993. Ipotesi di reato: il politico più votato in Italia e più conosciuto al mondo, il Parlamentare che ha avuto il maggior numero di incarichi di governo nella storia della Repubblica, è il mandante dell’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli. Dichiara Giulio Andreotti all’Ansa: “non voglio discutere sulla credibilità in generale dei pentiti. So, per quel che mi riguarda, che nei miei confronti hanno soltanto detto falsità e calunnie. Adesso si tratterebbe di quella dichiarazione di Buscetta secondo il quale il giornalista Pecorelli sarebbe stato ucciso perché inpossesso di segreti politici che riguardavano il sequestro dell’Onorevole Moro,conosciuti anche dal Generale Dalla Chiesa, e che io ero preoccupato che trapelassero. Chiama in causa i cugini Salvo e altri personaggi che non ho mai conosciuto”.Il 9 giugno 1993, il Procuratore Vittorio Mele chiede al Senato l’autorizzazione a procedere, le ragioni le spiega in una memoria di centodieci pagine. Intanto l’ipotesi di reato: concorso in omicidio volontario aggravato dalla premeditazione. Il Senatore,il Divo, come lo battezzava Mino Pecorelli, il Divo, come intitolerà nel 2008 Paolo Sorrentino la biografia per immagini, non è da solo nel libro dei sospetti, è incompagnia di Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calò, Stefano Bontate, Ignazio Salvo, Antonino Salvo; Bontate e i cugini esattori sono deceduti da tempo. Giuseppe Pippo Calò, palermitano esponente della Commissione con Michele Greco e Totò Riina, è considerato il cassiere delle cosche vincenti sulla piazza di Roma. I Magistrati vogliono verificare se le accuse che inguaiano l’anziano parlamentare sono vere perché “ vi sono elementi che fanno ritenere necessario percorrere un’ipotesi investigativa diversa, che, anche lasciando intatti alcuni presupposti, faccia pervenire alla conclusione che il delitto, motivato dai fatti indicati da Buscetta e commissionato a Bontate e Badalamenti, possa essere stato deliberato all’insaputa del Senatore”. Insomma potrebbero avergli fatto un favore senza farglielo sapere, il movente è comunque negli articoli e negli archivi di “OP”.””
-da pag.79. “” LA TELA DEL RAGNO. La Procura della Repubblica di Roma è convinta che le varie ipotesi di lavoro abbiano portato a delle conclusioni provvisorie e che le indagini non si possono fermare a queste. E non c’è contrasto con l’istruttoria che ha coinvolto e scagionato Massimo Carminati. Perché?Perché «molti elementi potrebbero condurre a ritenere che gli esecutori materiali siano da ricercare in quel particolare gruppo di criminali, delinquenti comuni e terroristi di destra, aggregatosi intorno alla Banda della Magliana. Certamente, peraltro, le munizioni che furono utilizzate per uccidere Pecorelli provengono da quel ristretto lotto di cartucce al quale appartengono anche i proiettili sequestrati dalla Digos in via Listz il 27 novembre 1981, nei sotterranei del Ministero della Sanità; locali ai quali Massimo Carminati, per conto dei Nuclei Armati Rivoluzionari e non solo, aveva libero accesso per via dell’amicizia con i padroni dell’arsenale e cioè Franco Giuseppucci e Maurizio Abbatino». Che c’entra con il delitto di via Orazio? C’entra perché due dei proiettili sparati contro il direttore di “OP” erano di una marca non comune, erano i francesi Gevelot usati rare volte in Italia e in genere dai marsigliesi. Però nello scantinato ministeriale ce n’era una partita: da quello stesso lotto venivano i due bossoli ritrovati accanto al cadavere. A stabilirlo una perizia balistica del 1984.””
– pag.125. “”LA SVOLTA. Il 21 gennaio 1995 a Palermo il Procuratore Giancarlo Caselli ottiene il rinvio a giudizio del Senatore dei mille soprannomi; Belzebù è uno degli ultimi, coniato per i mille sospetti che aleggiano sulla sua attività politica. A Palermo l’accusa è di concorso esterno in associazione mafiosa. Sono i grandi pentiti che l’accusano. Pochi giorni dopo, il 3 febbraio, Fausto Cardella chiede un supplemento di indagini: gli servono altri sei mesi. Il GIP Sergio Materia valuta e dà l’ok. Il 9 marzo il Magistrato viene minacciato di morte: una telefonata in dialetto siciliano al centralino dell’ANSA.E’ un giorno di svolta, il 14 marzo, alla Procura di Perugia, la richiesta di riaprire le indagini su Massimo Carminati, l’uomo di ponte tra i NAR e la Magliana,perché lo tirano dentro anche i pentiti del grande crimine romano, del quale lui era un pezzo pregiato. Massimo Carminati è di nuovo accusato di omicidio volontario, per l’assassinio di Carmine Pecorelli. Fausto Cardella chiede l’arresto. E da arrestare per lo stesso delitto anche Michelangelo La Barbera, “Angelino il Biondo”. Entrambi sono in carcere per altre questioni di malavita.””
– da pag. 163. Secondo il pentito Tommaso Buscetta, l’omicidio di Carmine Pecorelli venne richiesto da Stefano Bontate, da Gaetano Badalamenti e dai cugini Salvo nell’interesse di Giulio Andreotti e secondo il pentito Antonio Mancini l’omicidio fu voluto da Claudio Vitalone, organizzato da Danilo Abbruciati e Pippo Calò, referente a Roma della mafia palermitana. I due sicari furono Michelangelo La Barbera e Massimo Carminati. Prima del 1993 ipotizzare il coinvolgimento della mafia nell’omicidio di Mino Pecorelli sarebbe stato un inutile lavorio della fantasia investigativa. Quale sarebbe stato l’interesse di Cosa Nostra? Le dichiarazioni dei due pentiti rivelano che il movente è da collegare al sequestro Moro per le carte scritte dallo statista durante la prigionia e passate a Mino Pecorelli da una fonte di alto livello; informazioni che, se divulgate, avrebbero disarcionato per sempre Giulio Andreotti, anche senza un processo.””
– da pag.415. “”UN COLD CASE DI STATO. Le fonti di Mino Pecorelli, prima o poi lo avrebbero informato nel dettaglio intorno ai personaggi, agli ambienti, alle logiche perverse, alle politiche contorte di questa ragion di Stato (di più Stati) che tutto ha deciso e indirizzato. Avevano cominciato a farlo. Su via Fani ad esempio. Ne è convinto Giuseppe Fioroni, Presidente della seconda commissione parlamentare sul caso Moro che ha chiuso i lavori il 22 marzo 2018 quando nel volume “Il caso non è chiuso, la verità non è detta” scritto con Maria Antonietta Calabrò, ricorda che diversi suoi articoli fanno pensare che il giornalista sapesse da chi era composto il commando dell’agguato di via Mario Fani ipotizzando che proprio questo abbia firmato la sua condanna a morte. Scrisse il direttore di “OP” a pochi giorni dall’agguato: «aspettiamoci il peggio, gli autori della strage di via Mario Fani e del sequestro di Aldo Moro sono dei professionisti addestrati in scuole di guerra del massimo livello. I killer mandati all’assalto dell’auto del Presidente potrebbero invece essere manovalanza reclutata su piazza». Il Procuratore Generale della Repubblica di Roma, Luigi Ciampoli, ha recentemente confermato la bontà della visione dei fatti sintetizzata nello scritto di Mino Pecorelli, quando affida ai parlamentari alcuni suoi pareri: ci sono indizi per procedere contro l’esperto americano per concorso in omicidio perché potrebbe aver rafforzato con le sue indicazioni operative la convinzione della necessità e della ineludibilità dell’esecuzione della condanna a morte; in via Fani oltre alle Brigate Rosse c’era anche un agente del Sismi, che non può essere più indagato perché nel frattempo è deceduto; c’erano dunque durante l’agguato terroristi non solo italiani, esponenti della criminalità organizzata come lo ‘ndranghetista Antonio Nirta fotografato tra i curiosi subito dopo l’eccidio. La foto è nel fascicolo del processo di Perugia. Dirà Gero Grassi (Parlamentare della Repubblica) nel 2018: « in via Fani c’erano le Brigate Rosse», per dire di un affollamento di giocatori diversi ma tutti allo stesso modo decisi a far saltare il banco.””
– da pag.429. TITOLI DI CODA. L’omicidio Mino Pecorelli è dentro il melting-pot che bolle per più di un ventennio. È dentro questo tempo di attacchi alla democrazia e di torsioni istituzionali che sfocia nella cosiddetta Seconda Repubblica sulla quale sventolerà la bandiera di Silvio Berlusconi, il condottiero del Biscione, l’uomo mediatico del fare e dalla battuta facile. Il nome è tra gli iscritti alla P2 e della loggia del Venerabile Licio Gelli ed ha la tessera numero 1816. Un imprenditore già entrato a suo tempo, sostanzialmente sconosciuto ai più, tra i soggetti delle cronache della rivista “OP”. È così che c’è una ragione di questo tornare indietro e andare avanti nel tempo: è quel groviglio nauseabondo di interessi nazionali e internazionali, coltivati con le bombe, con i tentativi di golpe, con la strategia della tensione, con gli anni di piombo, con lo stragismo mafioso, con quel rosario infinito di morti che dilata verso il passato e verso il dopo l’invariabilità del liquido amniotico che ha incubato gli spari di via Orazio. Se fosse un film, i titoli di coda comincerebbero con le parole che hanno chiuso un altro processo, quello di Palermo nel quale Giulio Andreotti si è dovuto liberare dell’accusa di aver avuto collegamenti organici con Cosa Nostra. Le cose laggiù sono andate così. Il 23 ottobre 1999, un mese dopo Perugia, la sentenza di primo grado lo assolve con l’articolo 530, comma 2, del codice di procedura penale, che afferma: “il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”. È, semplificando, la vecchia insufficienza di prove. Nel 2003 si pronuncia la Corte d’Assise d’Appello, che stabilisce di “non doversi procedere in ordine al reato di associazione per delinquere (l’art. 416 bis del codice penale – associazione di tipo mafiosa – non era ancora prevista nell’ordinamento giudiziario negli anni ottanta, n.d.r.) commesso fino alla primavera del 1980 per essere lo stesso reato estinto per prescrizione”. La Cassazione, il 15 ottobre 2004, non cambia una virgola. Sostanzialmente ripete: i rapporti con compari e boss ci sono stati. Prima del 1980, fino a Moro e Dalla Chiesa, fino a Pecorelli e Sindona, fino a Calvi e Ambrosoli, fino agli scandali Banca Privata, Petroli, Italcasse. Il troppo tempo trascorso dai fatti, codice alla mano, ha estinto il resto. Non l’ha fatto scomparire, l’ha sterilizzato. Per gli anni successivi, l’assenza di prove della sussistenza del fatto o di riscontri certi sulla colpevolezza dell’imputato, portano all’assoluzione dell’ex Presidente del Consiglio. Prima della parola fine, si deve incidere un’altra data: 20marzo 1979. Di quel giorno, qualcuno forse ricorda il cadavere di un giornalista. Non si sa bene chi sia stato.””
Sin qui parti del libro
Ora valutazioni e integrazioni. Passiamo ad una fase trattata nel libro (pagg. 125 e 148) nella quale sono stato citato in quanto coinvolto quale testimone nel processo di Perugia. Era il 1996 e mi trovavo in Calabria da tre anni. Precedentemente ero stato per un quadriennio (1979 1983) all’Antiterrorismo del Ministero dell’Interno diretto dall’indimenticato Prefetto Parisi. Nel corso del processo, la Moretti e il Mancini, avrebbero riferito agli inquirenti di presunti rapporti tra alcuni esponenti della Banda della Magliana, in particolare Danilo Abbruciati ed Enrico De Pedis, con Funzionari dell’Antiterrorismo del Ministero dell’Interno ed un ex sottufficiale di Polizia di Stato. Si giunse così all’arresto di due bravissimi funzionari. Il reato contestato fu quello di “false informazioni al PM”, che prevedeva una pena da uno a cinque anni di reclusione. Dopo tre giorni di detenzione presso il Carcere Militare di Forte Boccea, i due funzionari ammisero ai Magistrati di essersi effettivamente recati in carcere ad incontrare De Pedis, Abbruciati e Maragnoli, ma di averlo fatto solo per fini istituzionali. Ai Funzionari in primo grado furono inflitti otto mesi di reclusione, al Sottufficiale di Polizia sei mesi. Pena sospesa e non menzione per tutti. Una sentenza riformata il 19 settembre 2001 dalla Corte di Appello di Perugia “Perché il fatto non sussiste” con conferma della Cassazione.
Concludo affermando che l’Antiterrorismo di allora non era come quello di oggi con Trojan e Algoritmi nel chiuso di santuari inviolabili, ma attività informativa… di strada… con rapporti con gente comune, prelati, malavitosi, criminali, terroristi pentiti e non e, se necessario,arrestando terroristi latitanti accortisi del pedinamento…
Quindi, nella gran scena dei processoni in esame, abbiamo visto con sorpresa che LO STATO HA PROCESSATO PERSONE DELLO STATO, CIOE’ SE STESSO, E SI È CONDANNATO, ASSOLVENDOSI DOPO… SCUSATE SE È POCO…
HO FINITO!!