Il colpo di Stato del 1964. Non dei Carabinieri, servitori dello stato dal 1814
La madre di tutte le fake news
Roma, 23 maggio 2021 – Il libro — in uscita da Rubbettino da alcuni giorni — si intitola: “Il COLPO DI STATO DEL 1964. La madre di tutte le fake news”.
Mario Segni ha impiegato tre anni a scriverlo; ma lo ha pensato da tempo, almeno da quando sul padre Antonio – eletto Presidente della Repubblica nel maggio 1962, costretto a dimettersi nel dicembre 1964 per le conseguenze di una trombosi – si è allungata l’ombra del «Piano Solo», del «colpo di Stato» per mettere fuori gioco i riformisti e depotenziare il centrosinistra.
Racconta Segni che la spinta a scrivere gli venne dal quarantennale dell’assassinio di Aldo Moro.
«Comparvero molti articoli, anche di giornalisti di area moderata, che a proposito della crisi del luglio 1964 riprendevano il vecchio racconto del golpe: un atto eversivo – minaccia o pressione militare – per imporre una svolta moderata.
Credevo che alcuni articoli importanti, come quelli di Paolo Mieli e altri pubblicati dal giornale diretto da Pier Luigi Vercesi, avessero modificato la linea storiografica. Vidi con stupore che era rimasta immutata. Un pò tutti sostenevano che lo sviluppo del centrosinistra era stato interrotto da un traumatico intervento eversivo, attribuito all’Arma dei Carabinieri del Generale De Lorenzo, e ispirato o diretto dal Presidente Segni.
Decisi allora di dedicarmi allo studio di quegli anni. Scoprii una cosa, prima con sorpresa, poi con rabbia: l’interpretazione passata alla storia non corrispondeva a un’interpretazione tendenziosa o a una forzatura. Si trattava di qualcosa di diverso: un cumulo di autentiche fandonie e falsità. Una mistificazione della realtà».
Iniziamo la lettura di parti del libro, che invito a leggere.
-“” Introduzione. Nel luglio 1964 ci fu in Italia una complicata crisi di governo. Aperta da Aldo Moro e chiusa dallo stesso leader politico – si passò dal primo al secondo governo Moro -, su quella crisi influirono forze economiche, rappresentanti delle istituzioni europee, organi di stampa; fu gestita dagli esponenti dei partiti, in particolare quelli di maggioranza; in essa il Presidente della Repubblica svolse un ruolo importante. Eppure, il luglio 1964 è ricordato soprattutto per il cosiddetto “Golpe De Lorenzo”. Quello che è stato chiamato il “golpe De Lorenzo” non fu un colpo di Stato ma l’assunzione di misure, discutibili fin che si vuole, prese per assicurare l’ordine pubblico in caso di gravi disordini e in particolare per garantire lo svolgimento delle elezioni se fossero state convocate anticipatamente. Anche se qualcuno avesse avuto l’intenzione di realizzare davvero un colpo di Stato, il solo coinvolgimento dei Carabinieri sarebbe stato del tutto insufficiente e in ogni caso il tentativo non ci fu. Non a caso si adombra soprattutto l’ipotesi di una “minaccia” di colpo di Stato per condizionare i leader politici, ma tutti i principali protagonisti politici, potenziali vittime del “golpe” – a cominciare da Nenni, presunto bersaglio principale dei “golpisti” – hanno attestato allora e in seguito di non aver percepito tale minaccia.””
– da pag.17. “” Lo scoop. La vicenda del piano Solo ha inizio il 10 maggio del 1967. In mattinata le agenzie diffondono il testo dei servizi contenuti nel nuovo numero de «L’Espresso» che sarà nelle edicole il giorno dopo. Corre voce che il direttore, Eugenio Scalfari, e l’autore del servizio, Lino Jannuzzi, abbiano cambiato nel cuor della notte, all’insaputa di tutti gli altri giornalisti, i titoli della prima pagina e tutta l’impaginazione. L’intera prima pagina, e «L’Espresso» usciva allora col formato lenzuolo: “14 luglio 1964 – Complotto al Quirinale”. E sotto, a caratteri ancora più estesi, “Segni e De Lorenzo preparavano il colpo di Stato”. Le modalità dell’evento sono raccontate da Jannuzzi alla terza pagina in un servizio intitolato “Segni e De Lorenzo – Complotto al Quirinale”. Il “golpe” viene raccontato nei particolari, con la precisa indicazione dei nomi, dei luoghi e dei fatti nei quali la manovra si sarebbe articolata. Le frasi attribuite ai personaggi sono spesso virgolettate, a garantire l’esattezza di quanto viene riportato. A poche ore di distanza dallo scoop vengono emesse due secche smentite ufficiali. Il Quirinale rende noto il telegramma che il Presidente della Repubblica Saragat ha inviato a Segni: «Caro Segni, ho letto con indignazione calunniose affermazioni contro la tua persona pubblicate da un settimanale romano. Mentre respingo con disgusto questa vergognosa speculazione, ti esprimo la mia affettuosa e devota solidarietà». Un’ora dopo un comunicato di Moro, Presidente del Consiglio, recita: «Un settimanale romano che indulge a fantasiose ricostruzioni giornalistiche, alle quali non si è soliti dare smentita, dà notizia di un preteso tentativo di colpo di Stato nel corso della crisi di governo del luglio del 1964 e giunge a riferire una frase che sarebbe stata pronunziata in un colloquio al Quirinale dall’allora Capo dello Stato col Presidente del Consiglio e il Ministro degli Esteri dell’epoca. La Presidenza del Consiglio è in grado di opporre la più netta e ferma smentita a tali notizie». È raro trovare affermazioni e smentite di uomini politici così nette e così taglienti.””
– da pag.29. Nenni. “”Il quarto testimone chiamato da Scalfari a sostegno della sua campagna è Pietro Nenni. La questione va studiata con attenzione perché su Nenni è stata compiuta una delle più sfacciate mistificazioni di questa vicenda. Alcuni suoi interventi del ’64, nei giorni caldi della crisi, sono spesso stati fatti passare come le prime denunce del disegno eversivo. Sarebbe stato lui a rivelare il “tintinnar di sciabole” di cui è piena la vulgata corrente. Per la verità Nenni nel 1964 non ha mai usato questa pittoresca espressione, venuta fuori chissà quando e chissà da chi. La realtà è diversa: Nenni è il più esplicito assertore della inesistenza del golpe e di qualunque disegno eversivo. Ancora più esplicito è quanto scrive sul Diario, e, si badi, senza risparmiare una critica politica a Segni, il 12 maggio 1967: «I giorni sono pieni di fantastoria del mancato colpo di Stato del 14 luglio 1964. La rottura parve irrimediabile. Si parlò anche di Segni e proprio io gli attribuii un’azione di incoraggiamento e di sostegno alla pressione della destra contro il centro-sinistra […] Tuttavia non si ebbe sentore di minacce e movimenti militari». E ancora, chiamato dalla Commissione d’inchiesta parlamentare a testimoniare sulla crisi, così racconta i giorni più caldi: «Fece una certa impressione il fatto che il Capo dello Stato consultasse il Comandante dell’Arma dei Carabinieri e il Capo di Stato maggiore della Difesa. Ma noi non avevamo nessun sentore di azioni concrete». Scalfari si giustificherà di fronte al Tribunale dicendo di avere «enfatizzati i titoli degli articoli» per «dare particolare evidenza al fatto che mi sembrava più rilevante». C’è qualcosa di ben diverso dalla enfatizzazione: è una totale distorsione. Siamo in presenza di una campagna mediatica che, con l’obiettivo politico di screditare gli esponenti del sistema, racconta una storia completamente diversa da quella realmente accaduta.””
– da pag.33. “”Il processo. Dopo alcune settimane, nelle quali il dibattito si è in parte affievolito, si apre l’evento più clamoroso della intera vicenda: il processo De Lorenzo -L’Espresso, come viene chiamato in termini giornalistici. Il Generale De Lorenzo e il Colonnello Mario Filippi (al Sifar dal 1951 al ’63 nda) querelano per diffamazione il direttore de «L’Espresso» Scalfari, e l’autore degli articoli incriminati, Jannuzzi. Il processo si apre nel novembre 1967 e per i tempi italiani è straordinariamente breve: dura tre mesi e venti giorni, anche se la pubblicazione delle motivazioni, in questo caso importantissime, avviene sei mesi più tardi. Vengono a testimoniare in aula due Ministri, un ex Presidente del Consiglio, diciassette generali e sette colonnelli. Rivela al pubblico uno scenario inedito di retroscena della vita politica e militare purtroppo non sempre edificanti. Alcuni degli elementi del castello accusatorio vengono subito smentiti. Così dalla deposizione di De Lorenzo si ricava che non fu mai disposto alcuno stato di allarme, nemmeno nella forma più attenuata. Il dato non viene mai smentito, ma anzi più volte confermato. Il Generale Celi dichiarerà più avanti, sempre nel processo, che non furono spostate nemmeno le ferie già stabilite. Viene smontata anche la tesi che un alto contingente di Carabinieri si sarebbe fermato a Roma con pretesti vari dopo la parata del 2 giugno, per essere presente nella capitale durante la crisi politica. La deposizione del Generale Loretelli ricostruisce con precisione i movimenti dei vari reparti, impegnati sia nella sfilata del 2 giugno, sia nel successivo festeggiamento del 150° dell’Arma, avvenuto il 14 giugno (all’aeroporto militare dell’Urbe con un imponente schieramento al comando del Gen. di Div. Vittorio Fiore su due settori al comando dei Generali Simonetti e Loretelli n.d.a). I riflettori si accendono violentemente quando viene raccontata in aula l’unica, vera misura preventiva presa dai Carabinieri in tutto quel periodo: la distribuzione ai comandanti delle tre Divisioni, e successivamente ai comandanti delle Legioni territoriali, di un elenco di persone considerate estremamente pericolose per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. L’elenco è stato formato dal Sifar (il servizio segreto militare) e viene consegnato ai comandanti di Legione. La richiesta del Sifar, e il conseguente ordine che De Lorenzo dà agli ufficiali, è quella di operare velocemente un aggiornamento delle liste, che da tempo non verrebbero controllate e di vigilare sulle persone sospette. Il processo riserba altri due colpi di scena. Sono avvenuti entrambi nell’udienza del 23 dicembre 1967. Il primo ha per protagonista il P.M. Vittorio Occorsio. Il secondo, il grande accusatore, Lino Jannuzzi. All’apertura dell’udienza, Occorsio dichiara: «Dal dibattimento è emerso in modo chiaro che il contenuto degli articoli incriminati rispecchia quanto riferito da fonti di informazione qualificate, […] e quindi “è stata provata la verità dei fatti fondamentali”». Fra i fatti provati, si badi, non vi è l’effettuazione di un colpo di Stato. Ciò che sarebbe emerso è “la preparazione di un piano di emergenza da parte di De Lorenzo all’insaputa delle autorità di Ps e quindi fuori dai suoi poteri”; e ancora “la compilazione di liste di persone da arrestare”. Di conseguenza, chiede la chiusura del dibattimento e il proscioglimento degli imputati. La sera del primo marzo viene letta la sentenza. La condanna dei due imputati è netta. Il Tribunale condanna Scalfari alla pena di reclusione di un anno e cinque mesi e alla multa di 250mila lire, Jannuzzi alla reclusione di un anno e quattro mesi e alla multa di 200mila lire. Non solo è stata accertata la diffamazione, ma nell’ambito delle pene previste la condanna è ai limiti massimi.””
– da pag.91.”” De Lorenzo Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Nel febbraio 1966, due anni dopo i fatti di cui stiamo parlando, Giovanni De Lorenzo viene nominato CSM dell’Esercito. La scelta non è stata facile, perché in occasione di due nomine fondamentali, questa e quella del Capo di SM della Difesa, si era scatenata nell’ambito delle Forze Armate una durissima competizione. La prima ripresa era stata vinta dal tradizionale avversario di De Lorenzo, il Generale Aloja, che aveva assunto la carica più importante delle forze armate italiane. La seconda viene vinta da De Lorenzo. La rivalità tra i due continua, e contribuirà nei mesi successivi a determinare una serie di turbolenze, di scandali, di lotte intestine che sconvolgeranno per molto tempo questo delicatissimo settore. Quando De Lorenzo viene nominato, ai vertici dello Stato ci sono tre uomini che erano stati protagonisti della crisi del 1964, e quindi di tutta la vicenda dentro la quale si sarebbe sviluppato il tentativo di golpe, o secondo altri la minaccia militare in cui De Lorenzo avrebbe piegato la resistenza socialista. Saragat era succeduto a Segni nella Presidenza della Repubblica, Moro e Nenni erano rimasti Presidente e Vicepresidente del Consiglio. La domanda è semplice: se due anni prima erano stati oggetto di una minaccia che violava la legalità democratica, com’è pensabile, come è sostenibile che i tre statisti abbiano nominato alla carica più alta dell’Esercito l’autore di questo gravissimo attentato? Attenzione: Moro e Nenni, Presidente e vice, non avallano una proposta altrui. Ministro della Difesa è rimasto Andreotti, che non è favorevole alla nomina di De Lorenzo: propone il generale Vedovato. A sostenere De Lorenzo è proprio Moro con i ministri socialisti (ce lo racconta Parri in un lungo articolo su «L’Astrolabio»). Nenni, che ha ricevuto da Moro assicurazioni, è d’accordo. Lo stesso ha fatto La Malfa. Nel dibattito che si svolge alla Camera nel novembre del 1968 emerge anche l’accordo del Partito comunista. E allora?Che minaccia era stata questa se nessuno dei minacciati se ne era accorto?””
– da pag.113. “”L’inchiesta parlamentare. È difficile che un’inchiesta parlamentare chiarisca in modo definitivo i fatti su cui indaga. Troppo forti sono le spinte politiche che muovono i suoi componenti. La commissione d’inchiesta istituita nel 1970 «sulla crisi del giugno-luglio 1964» non fa eccezione a questa regola. La richiesta di un’indagine parlamentare era stata avanzata sin dall’inizio dal «partito del golpe». La richiesta divenne più forte e più clamorosa dopo la sentenza del Tribunale di Roma che condannò Scalfari e Jannuzzi. Sconfitta sul piano giudiziario, la corrente colpevolista cercava una rivincita sul terreno parlamentare. Non vi era solo la preoccupazione per i problemi che potevano nascere dentro la maggioranza di governo. Vi era anche, e per quanto ho conosciuto Moro posso dire soprattutto, la convinzione del danno che una campagna scandalistica e irresponsabile poteva portare agli apparati più delicati della macchina statale. Ma dopo le elezioni del 1968 il quadro era cambiato. I rivolgimenti sessantottini scuotevano il mondo. L’Italia aveva vissuto la crisi economica, le agitazioni sindacali, lo Statuto dei lavoratori. Di lì a poco la tragedia di piazza Fontana avrebbe scosso l’Italia. La vicenda del piano Solo sarebbe entrata a far parte della narrazione della strategia della tensione, ma apparteneva ormai a un altro mondo. Ma l’attenzione della pubblica opinione non fu nemmeno paragonabile a quella che era nata attorno al processo di Roma. Il lavoro della commissione fu comunque intenso. Alla sua conclusione le relazioni finali furono cinque, corrispondenti ai diversi orientamenti politici. La relazione del Presidente della commissione Alessi fu votata dai partiti della maggioranza di governo. Comunque, la conclusione della relazione Alessi sul tema centrale, e cioè l’esistenza di un colpo di Stato o di qualunque disegno eversivo, è chiarissima, e vale la pena di riportarne per intero la parte fondamentale: “La commissione parlamentare ha l’onore di annunciare la sua conclusione che è di chiara, perentoria esclusione di tutte le tesi dolose sopra riassunte. Nel vasto memoriale documentario e testimoniale che la commissione ha raccolto, non è emerso un solo elemento di prova, o un solo indizio che possa addurre verso una conclusione ad una delle tesi nelle quali è stato variamente configurato il presunto tentativo di colpo di Stato o di eversione come proposto.” Queste conclusioni furono votate non solo dai parlamentari della Democrazia cristiana, ma anche da quelli del partito socialista, cioè di un partito tra le cui fila militavano gli inventori del colpo di Stato (Scalfari e Jannuzzi erano in quel momento parlamentari del Psi). A chiusura dei lavori il Presidente del Consiglio Emilio Colombo, Capo di un governo a larga partecipazione socialista, scriveva al Presidente della commissione Alessi: «Si può dunque una volta per tutte affermare che nel giugno-luglio 1964 non vi fu alcun tentativo di sovvertire l’ordinamento democratico, né quindi addebito alcuno agli uomini investiti in quel tempo dalle più alte cariche politiche».””
Sin qui il libro.
Ora integrazioni, commenti e valutazioni. Sulla presente tematica abbiamo letto un altro libro, quello di Mimmo Franzinelli: “Il Piano Solo – I Servizi Segreti, il Centro Sinistra e il “Golpe” del 1964”, Mondadori, che bene mette in luce la figura del più grande Statista italiano, dopo De Gasperi, Aldo Moro, il quale proprio per il Suo fondamentale ruolo, anni dopo, nel 1978, fece quella tragica fine sulla quale ci sono ancora misteri. Nell’ultimo scorcio di vita Aldo Moro torna sulle vicende del Piano Solo in due distinte circostanze. Il 18 febbraio 1978 la visita di Eugenio Scalfari nello studio romano di via Savoia segna la rappacificazione tra lo Statista democristiano e il giornalista. Dopo la sentenza del processo De Lorenzo-L’Espresso infatti, Scalfari accusò Moro di avere determinato la condanna sua e di Jannuzzi, opponendo ai Giudici il segreto di Stato… Ancora più dell’epistolario dalla prigionia, è il memoriale di via Monte Nevoso scritto durante il sequestro delle BR a descrivere con disincanto l’Italia del secondo dopoguerra, in un documento straordinario sottovalutato, elaborato in condizioni terribili nell’arco di tre settimane (25 marzo-15 aprile 1978), in forma di ampie riflessioni sui temi indicati dai carcerieri. Lo rinvengono il 1° ottobre 1978 i Carabinieri del Reparto speciale Antiterrorismo del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nell’irruzione in una base brigatista di Milano, zona Lambrate. Dopo una dozzina d’anni si scopriranno nell’appartamento ulteriori documenti di estremo rilievo. Il nuovo materiale contiene importanti riferimenti ai dirigenti dei Servizi segreti e severe valutazioni su taluni leader democristiani. Precipitato nella condizione il reietto e sconfessato dal suo stesso partito, Moro svela il “sommerso“ della crisi politica dell’estate 1964. Moro riconduce il Piano Solo alla regia personale e politica del Presidente. Il tentativo di colpo di stato nel ‘64 ebbe certo le caratteristiche esterne di un intervento militare, secondo una determinata pianificazione propria dell’Arma dei Carabinieri, ma finì per utilizzare questa strumentazione militare essenzialmente per portare a termine una pesante interferenza politica rivolta a bloccare o almeno fortemente ridimensionare la politica di centro sinistra, ai primi momenti del suo svolgimento. Questo obiettivo politico era perseguito dal Presidente della Repubblica Segni, che questa politica aveva timidamente accettato in connessione con l’obiettivo della Presidenza della Repubblica. Il memoriale contraddice valutazioni accomodanti e “verità politiche“. Liquida la versione del Generale golpista, con un’interpretazione razionale tutt’altro che compiacente verso i carcerieri, che preferirebbero la conferma della vulgata di sinistra sul colpo di Stato approntato dai Carabinieri d’intesa con gli americani. Al contrario, Moro esclude responsabilità di De Lorenzo e lo legittima quale proprio referente, come capo del Sifar, nella neutralizzazione del ministero Tambroni, “Il fatto più grave e più minaccioso per le istituzioni“. Probabilmente lo Statista è convinto che il Generale abbia pagato, con la destituzione, responsabilità non sue. Episodi distanti anni luce, per il prigioniero delle BR e per il Paese. L’Italia attraversa una nuova stagione, tormentata da inflazione e terrorismo. Nel 1964 era la presenza socialista nel Governo a essere contestata dalle destre, ora le polemiche riguardano l’apertura della maggioranza ai comunisti, patrocinata da Moro, spettatore e profeta del declino del sistema da lui edificato, e di cui ora intravede – con lucida disperazione – lo sgretolamento.
Sin qui il libro.
Concludo. Certamente non fu un tentato golpe da parte dei Carabinieri, ma una pianificazione articolata in caso di insurrezioni di piazza. Nel luglio 1960 ci furono gravi perturbamenti dell’ordine pubblico. Tre mesi dopo la formazione del Governo Tambroni, grazie ai voti determinanti del MSI, quel partito annunciò che si sarebbe tenuto a Genova il congresso nazionale, causando lo sciopero generale della CGIL con violenti scontri tra manifestanti e forze di polizia e così ci fu lo spostamento del congresso a Nervi per decisione di Tambroni. Gli incidenti dilagarono. Il primo morto in provincia di Agrigento, durante uno sciopero contro la disoccupazione. A Roma, durante una manifestazione di associazioni partigiane a Porta san Paolo, ci furono numerosi feriti, anche tra Deputati. Si sparò a Reggio Emilia con cinque morti, quattro in Sicilia e numerosi feriti in diverse altre città. La CGIL indisse uno sciopero generale per il 19 luglio. Tambroni, isolato, si dimise. Una settimana dopo Amintore Fanfani formò un nuovo governo che ottenne la fiducia del Parlamento. Un monocolore DC appoggiato da una maggioranza quadripartita. Moro lo definì “Governo delle convergenze parallele”. Si aprì la strada verso il centrosinistra. Certamente, in prosieguo, “more Italico”, la situazione fu caratterizzata da dissidi tra politici, Servizi italiani e stranieri, ed i cosiddetti, sempre presenti, “poteri forti”. Moro, di lì a poco, diede vita al suo secondo governo di centrosinistra, limitandosi ad accantonare, con il consenso di Nenni, alcune delle riforme più contrastate. Si, Moro, quel grande Statista che proprio per le Sue alte visioni e intuizioni politiche di progresso sociale, nel 1978 ebbe la mortale condanna. Da parte di chi?…
Ancora da scoprire…