Tematiche etico-sociali

Storia di una guerra perduta e vinta. La terza guerra d’indipendenza nazionale

Italia 1866 copertinaRoma, 26 settembre – “Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta”; un interessante libro  di Hubert Heyriès (Il Mulino 2016), storico militare, docente nell’Università Montpellier III.
Il 20 giugno 1866 Vittorio Emanuele II (già Re d’Italia dal 1861) annunciò la dichiarazione di guerra all’Austria che giungeva dopo la firma, l’8 aprile precedente,  di  un  trattato  d’alleanza con la Prussia. Ma questo conflitto, che si concluse con la pace di Vienna del 3 ottobre  1866 e che s’inseriva nella coscienza popolare come Terza guerra  d’indipendenza,  dopo quelle  del  1848-1849 e del 1859, non corrispose per nulla alle speranze del Re. Al contrario, questa fu probabilmente la guerra meno amata della storia del Risorgimento. Per molto tempo fu infatti  identificata con due sconfitte: quella di terra, a Custoza il 24 giugno, e quella su mare, a Lissa, il 20 luglio  1866. Ciò relegò in secondo piano  il fatto che il Veneto, consegnato da Napoleone  III  all’Italia dopo averlo ricevuto dall’Austria in cambio della sua benevola neutralità, era finalmente diventato italiano e che il processo unitario aveva quindi compiuto un fondamentale passo (per l’unità completa nazionale si sarebbe comunque dovuto attendere il XX settembre 1870 con l’entrata dei Bersaglieri a Roma). Il solo ricordo di quelle due sconfitte bastò per molto tempo a risvegliare sentimenti contrastanti. La storiografia italiana finì così col minimizzare un av­venimento  che  associava  il concetto di sconfitta morale a quello di vittoria immeritata. Il Generale Alberto Pollio (che morì alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale, lasciando il Comando a Luigi Cadorna), autore nel 1903 di una storia della battaglia di Custoza ancora oggi fra le opere di riferimento, fece  acuta­mente notare come ancora al suo tempo, quasi quattro decenni dopo la fine del conflitto, «la sconfitta di Custoza pesasse ancora come una cappa di piombo da trentasei anni sul nostro Esercito, che pur meritava miglior sorte».
Nel settembre 1866 lo storico Pasquale Villari non nascose la sua amarezza chiedendosi: «La guerra è cessata, e noi abbiamo ottenuta la Venezia…..Ma niuno di noi è contento…. Que­sta guerra  ci ha  fatto perdere  molte illusioni,  ci ha tolto  quella fiducia infinita che avevamo in noi stessi….. Abbiamo visto i focosi italiani andare come le tartarughe… Di chi è la colpa?».
Ma se la disfatta di Custoza fu difficile  da accettare,  quella di Lissa lasciò tutti increduli.
Il Ministro della  Marina  Ago­stino Depretis, come fa notare lo storico Paolo Mieli nel commento al libro di Hubert Heyriès, tentò di barcamenarsi per sfuggire alle proprie responsabilità. La realtà, invece, era crudele. L’Italia era stata vinta per mare e per terra, nonostante le aspettative. Tuttavia la riunione del Veneto al territorio nazionale avrebbe potuto fondare l’illusione della vittoria. Il trattato di pace ratificato dal re d’Italia il 6 ottobre, e il 12 seguente a Vienna, venne accolto a Firenze (all’epoca Capitale d’Italia) da un silenzio  glaciale. All’inizio si constatò  da parte italiana un eccesso di ottimismo per i successi conseguiti dal nostro Esercito al Sud nella lotta al brigantaggio che l’autore non esita a definire «la prima guerra civile dell’Italia». A metà degli anni Sessanta c’era l’idea che l’ Esercito sarebbe stato in grado di «misurarsi con l’Austria» per conquistare il Veneto, «in attesa di risolvere poi la questione romana» senza rendersi conto che la lotta al brigantaggio era ben diversa dalla guerra moderna. Combatterono valorosamente solo i Granatieri di Sardegna che, sul monte Croce, si distinsero. Tra loro il Capitano Luigi Pelloux, poi  diventato Presidente del Consiglio. Ai primi di luglio giunse la notizia della vittoria prussiana a Sadowa e a quel punto l’Italia cercò una vittoria riparatrice. Fu la volta della Marina che aveva la guida di Carlo Persano. Persano fu accusato di vigliaccheria in una lettera al Ministro della Marina Agostino Depretis. E quando Depretis lo minacciò di destituzione nel caso fosse rimasto inerte, Persano decise di lanciare la sfida su Lissa ma fu un’altra sconfitta. Le navi italiane uscirono dal porto di Ancona e per imperizia si urtarono tra di loro provocandosi reciproche avarie. Gli austriaci registrarono la morte di 123 marinai. Gli italiani 638; 376 sul «Re d’Italia», 194 sulla «Palestro». Per l’Italia per fortuna il 21 luglio ci fu la vittoria di Giuseppe Garibaldi a Bezzecca; erano  tre volte più numerosi degli austriaci. E anche il numero dei loro caduti fu assai più alto di quello dei nemici. Persano era diventato il capro espiatorio di quella sconfitta. A lui pensò il Senato, che lo mise sotto processo per «viltà innanzi al nemico», lo trasse in arresto e, nel giro di quindici giorni con dodici udienze pubbliche, lo condannò alle dimissioni, alla perdita del grado di Ammiraglio e a farsi carico delle spese di giudizio.
Noi ora aggiungiamo, ad integrazione, che le vicende di carenze dei Vertici nella preparazione delle guerre come nella loro conduzione strategica si sono purtroppo perpetuate, nel prosieguo della storia.
Nella prima guerra mondiale negli alti gradi vi era una ufficialità formata in gran parte da aristocratici militari di famiglie blasonate. Il Corpo Ufficiali venne ovviamente integrato per le esigenze belliche e quindi furono istituiti dei corsi per ufficiali di complemento che tentarono di trasformare dei giovani civili, diplomati e spesso anche laureati, in comandanti di uomini. Si venne così a  creare un vero e proprio “vallo di Adriano” tra gli ufficiali e la truppa, ma anche all’interno degli ufficiali si creò una crasi. Proprio per questo spesso gli ufficiali di  complemento solidarizzarono con la truppa, non condividendo gli atteggiamenti oltremodo rigidi degli Alti Comandi che erano ad Udine, lontani dalle trincee e dalla difficilissima vita che vivevano gli uomini tutti i giorni. Per reazione, il Generale Luigi Cadorna e il suo Stato Maggiore ritennero che un ruolo importante doveva essere assicurato dalla Giustizia Militare di guerra, quale unico strumento di disciplina ferrea con ruolo di rigida educazione e dissuasione di comportamenti ritenuti illeciti. Ma sappiamo bene dalla storia dove portò la linea Cadorna, con fucilazioni di massa di asseriti disertori, mentre sarebbe stata più pagante quella di Armando Diaz, certamente più umana e attenta alle esigenze dei militari. Diaz, nominato Capo di Stato Maggiore dell’Esercito dopo lo sfondamento degli Austriaci a Caporetto, non certamente perché più valido di Cadorna, come in effetti era, ma solo perché napoletano e quindi più vulnerabile e meglio censurabile in caso di eventuale definitiva disfatta, creò le premesse per la vittoria italiana galvanizzando le truppe per la riscossa che si verificò come sappiamo. E che dire di Pietro Badoglio, massima espressione della casta militare di ogni tempo, che era Tenente Colonnello allo scoppio della grande guerra uscendone, nel ’18, con il grado più alto di Tenente Generale, avendo maturato una promozione all’anno. E tutto questo sebbene fosse stato responsabile dello sfondamento degli Austriaci a Caporetto (l’inchiesta che ne conseguì fu segretata nella parte che lo riguardava, sembra per interventi massonici potenti!) per divenire, di lì a poco, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e, sotto il Fascismo, Capo di SM Generale…..sino a subentrare quale Capo del Governo, dopo il 25 luglio 1943, allo stesso Mussolini.
Una vicenda del tutto italiana! Concludendo, lasciando da parte le gerarchie, rendiamo omaggio commosso e riconoscente alle centinaia di migliaia di nostri  Militari caduti e ai tanti e tanti Eroi che hanno evidenziato, nella storia,  immane  coraggio e valore nel nome dell’Italia nostra, onorandola. Ricordiamoli con riconoscenza, ammirazione e rispetto !!

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