I Kamikaze nel secondo conflitto, come gli antichi Samurai
Roma, 29 dicembre – Nei giorni scorsi, su una bancarella di libri usati, ho trovato un libro di 170 pagine, pagato solo due euro, dal titolo stimolante: ” I Kamikaze”, della collana “I documenti terribili” edita da Mondadori, anno 1973, a cura di Giorgio Bonacina. Un argomento interessante, quello del leggendario ardimento nipponico, già trattato su questa testata con l’articolo: “Buschido, il codice di vita e di guerra degli antichi e moderni Samurai” del 20 Aprile 2013“.
Tra i protagonisti, Masabumi Arima (1895-1944), Ufficiale dell’ imperiale Marina nipponica che, dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, nel ’43 fu nominato Contrammiraglio. Morì lasciandosi precipitare con il suo aereo sulla portaerei statunitense “Franklin”. L’esempio di Arima, anche per l’alto grado militare ricoperto, suscitò grande entusiasmo e ammirazione in Giappone, fornendo un “modello” per le future imprese dei kamikaze (cioè, “vento divino”: kami significa “divinità” e kaze sta per “vento”).
Il 15 ottobre 1944, di prima mattina, un’animazione insolita regnava all’aeroporto Clark, nelle Filippine occupate. Gli animi erano eccitatissimi perché la ricognizione aveva avvistato una Squadra navale americana al largo dell’isola di Luzon, la maggiore dell’arcipelago. Il Contrammiraglio Masabumi Arima, Comandante della 26° Flottiglia della Prima Flotta Aerea di Marina, riunì a rapporto i suoi Ufficiali e chiese formalmente all’Esercito – fatto senza precedenti – di concedergli tutti gli aerei in grado di combattere affinché, per la prima volta, le squadriglie delle due Forze Armate potessero operare insieme.
L’autorizzazione venne concessa e Arima decise che l’attacco alla Squadra navale USA si sarebbe svolta in due ondate.
La seconda sarebbe stata costituita da 13 bombardieri, da 16 caccia e da 70 caccia dell’Esercito. Quando la prima ondata era già in volo, e mentre si allineavano sulle piste di cemento gli apparecchi della seconda, Arima in persona giunse insieme agli aviatori con una tuta priva di gradi. Disse: ” Comanderò io la seconda ondata …non si discute; vengo con voi”.
Sebbene costernati, gli uomini non poterono che inchinarsì alla volontà del Comandante. Negli ultimi tempi lo si vide pregare e meditare a lungo, in raccoglimento quasi estatico. Da settimane aveva lasciato la sua lussuosa residenza per vivere come i soldati più umili, nutrirsi frugalmente e talvolta anche digiunare. Come se una fede al calor bianco, più che una febbre, lo divorasse; ma nessuno sospettava – od osava sospettare – qual era il suo vero proposito.
Salito a bordo di un bombardiere, ordinò al suo compagno di volo, un Sottufficiale, di scendere dall’aereo; certo fu il primo a intuire che il Comandante stava per compiere un gesto disperato.
La seconda ondata era in volo verso mezzogiorno. Tutti gli occhi erano puntati sull’aereo di Arima, che dall’esterno non si distingueva dagli altri dodici “Suisei”. I caccia “Zero” proteggevano i bombardieri in picchiata volando a una quota più alta di un migliaio di metri; mentre i caccia dell’Esercito seguivano a gruppi di cinque-sette apparecchi. Nel primo pomeriggio il Task Group USA, con anticipo più che sufficiente per far decollare i caccia imbarcati sulle paortaerei, localizzò gli incursori. Tutto era pronto per accogliere i Giapponesi come, del resto, i Giapponesi s’aspettavano. Così fu, infatti. Molti apparecchi giapponesi, che non avevano i serbatoi corazzati, esplodevano letteralmente in volo, dissolvendosi. I caccia Zero, più leggeri e manovrabili, evoluivano come sempre nelle più ardite acrobazie, ma erano braccati e assaliti da tutte le parti. I bombardieri Suisei, meno veloci, non riuscivano neppure a raggiungere le posizioni dalle quali tentare le picchiate sulle portaerei americane. Tutti, tranne, uno, il Contrammiraglio Arima, si era nascosto in una nuvola per cogliere di sorpresa la grande portaerei Franklin. Eccolo quindi gettarsi dritto in quella direzione e scendere come una meteora. Ecco la Franklin ingigantire davanti agli occhi di Arima; fu un attimo…un vivido bagliore color rosso-arancio, una nuvola di fumo denso e di fuoco. Il Suisei, con il suo carico di tre quintali di bombe, si polverizzò sul ponte della Franklin.
Esterrefatti, angosciati, ma anche pazzi di entusiasmo, gli aviatori giapponesi scampati alla furia degli Hellcats assistettero al sacrificio supremo del loro Comandante.
Intanto, sotto ai loro sguardi, una serie di deflagrazioni si succedeva sulla portaerei ferita. Per la storia, dal 25 ottobre 1944 furono 4.615 i piloti suicidi: 2.630 kamikaze della Marina e 1.985 dell’Esercito.
Gli uomini del “Vento Divino” non hanno certamente salvato il Giappone dalla disfatta militare. Il Giappone non poteva vincere in nessun modo.
Però c’è una certezza: una cosa è morire quando si è sorpresi dalla morte, un’altra è scegliere di morire, e sceglierlo volontariamente addirittura in una forma organizzata.
In questo, tutta la grandezza degli antichi e moderni valorosi e leggendari Samurai!