La strage continua – La vera storia dell’ omicidio di Mino Pecorelli

Raccontata da Raffaella Fanelli

“La strage continua – La vera storia dell’ omicidio di Mino Pecorelli” raccontata dalla giornalista investigativa Raffaella Fanelli. Il libro nasce da un foglio, con frasi scritte a matita di suo pugno, “La strage continua”.
È lo schema della copertina del numero mai pubblicato della rivista, la cui pubblicazione era attesa con preoccupazione da politici dell’epoca.
Il titolo si ispira proprio a quegli appunti ritrovati: “La strage continua – La vera storia dell’omicidio di Mino Pecorelli” (Ponte alle Grazie editore). Più di duecento pagine molto interessanti, da leggere. Ma chi fu Pecorelli?
Avvocato, militante democristiano e giornalista, Pecorelli fondò nel 1968 ‘OP’ per “Raccontare i retroscena di quel sistema di potere che si era incastrato nei gangli dell’Italia a sovranità limitata”. Il suo giornalismo coraggioso sottolineò le gravissime responsabilità politiche e i torbidi intrecci tra politica, affari, loggia P2 e servizi segreti.
Fu uno dei primi a svelare il doppio stato; fu il primo a denunciare l’esistenza del Piano Solo e il golpe Borghese; i traffici di armi e di petrolio con la Libia e altro ancora.
Pecorelli stava approfondendo giornalisticamente tutto ciò che si muoveva intorno alla strage di Piazza Fontana e per questo aveva incontrato Giovanni Ventura, come nel libro viene confermato da Franco Freda e dalla collaboratrice di Pecorelli, Paola Di Gioia.

Iniziamo la lettura di parti del libro. 

-da pag. 55…””L’omicidio di Mino Pecorelli.
«Mino aveva un appuntamento importante il giorno in cui fu ucciso», la memoria di Rosita Pecorelli, sua sorella, è vivida. Di quel giorno ricorda tutto. Si, quell’ uomo, un certo Antonio, che Mino disse di aspettare per le 17. Sotto al portone, vidi un uomo. Era lo stesso che avevo incrociato entrando due ore prima». Un volto che Rosita riconosce nelle foto che mostriamo: sono quelle di Antonio Chichiarelli, il falsario della banda della Magliana. «Era lui, l’ ho visto quel giorno, in via Tacito», un volto che segnalò subito ai Carabinieri. Eppure, tra verbali e interrogatori, non troviamo traccia delle sue dichiarazioni. Il 22 marzo del 1979, 48 ore dopo l’ omicidio Pecorelli, una chiamata anonima arrivò sul telefono di casa del Procuratore Giovanni De Matteo, titolare delle indagini insieme al giudice Domenico Sica. La voce accusò Licio Gelli di essere il mandante del delitto e collegò la morte del giornalista all’omicidio del Magistrato Vittorio Occorsio, assassinato nel 1976 da Ordine Nuovo, o meglio, da Pierluigi Concutelli (iscritto alla loggia massonica Camea), un neofascista condannato all’ergastolo ma ai domiciliari dal 2009 per gravi motivi di salute. Così tanto gravi che, dopo 11 anni dalla sua scarcerazione, è ancora vivo. Il giudice Occorsio, lo stesso che nel 1971 aveva chiesto lo scioglimento di Ordine Nuovo invocando l’ applicazione della legge Scelba, fu il primo a intuire che eversione, massoneria e criminalità organizzata si muovevano a braccetto. Era il Magistrato che aveva lavorato alle inchieste sui due colpi di Stato mancati, il Piano Solo e Il golpe Borghese, su Piazza Fontana e sulla massoneria deviata. Poco prima di essere ucciso aveva avviato indagini sulla P2 e sui rapporti di alcuni suoi esponenti con la malavita dedita ai sequestri di persona. Il giudice Vittorio Occorsio, quando fu ucciso, stava indagando sui sequestri di quegli anni e sui soldi dei riscatti finiti per finanziare una certa OMPAM (Organizzazione mondiale per assistenza massonica): «Occorre cercare i mandanti di coloro che muovono gli autori dei sequestri, i cui soldi servono a finanziare azioni eversive. I sequestratori spesso non sono che degli esecutori di disegni invisibili ma concreti. Loro agiscono sempre per conto di altri». Fu una delle ultime dichiarazioni del giudice Occorsio. Per il suo omicidio, nell’ ottobre del 1976, furono indagati prima Danilo Abbruciati e poi Alvaro Pompili, entrambi legati alla banda della Magliana. Anche lo stesso Licio Gelli fu sentito dai Magistrati di Firenze, Pierluigi Vigna e Gabriele Chelazzi. Le indagini dei giudici fiorentini non individuarono il mandante ma scoprirono che i proventi (280 milioni di lire) del sequestro del banchiere Luigi Mariano, a Lecce, organizzato da Concutelli ed eseguito da noti esponenti politici della destra extraparlamentare pugliesi legati a Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, furono riciclati in banche londinesi utilizzate da esponenti della destra eversiva. Pierluigi Concutelli è stato condannato all’ergastolo il 16 marzo 1978, proprio il giorno del sequestro di Aldo Moro e della strage di via Fani.””

-da pag.63…””Operazione Tacito.
Le prime indagini. In via Orazio, sull’ asfalto, il killer del giornalista lasciò quattro bossoli di pistola calibro 7.65, due di marca Gevelot e due di marca Fiocchi. I Gevelot erano assai rari da trovare sul mercato, anche su quello clandestino. Proiettili dello stesso tipo furono sequestrati, due anni più tardi, nel novembre del 1981, nell’ arsenale della banda della Magliana, quello nascosto nei sotterranei del Ministero della Sanità. I periti che esaminarono le armi della banda, scrissero che i Gevelot sequestrati nei locali del Ministero e quelli usati per uccidere il giornalista appartenevano allo stesso lotto. Chi era Antonio Chichiarelli? Antonio Giuseppe Chichiarelli, detto Tony, era un genio nel riprodurre le opere dei grandi artisti ed era altrettanto abile nel falsificare documenti. Era vicino alla banda della Magliana e in particolare a Danilo Abbruciati. Fu lui l’estensore del famoso e falso comunicato numero 7 attribuito alle Brigate Rosse,quello in cui si annunciava – quando era ancora vivo – la morte di Aldo Moro e la sua sepoltura presso il lago della Duchessa. Anni più tardi ne parlerà Steve Pieczenik, all’ epoca capo dell’ Ufficio per la gestione del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato americano e uomo di fiducia di Henry Kissinger, chiamato a far parte del comitato di esperti istituito da Francesco Cossiga per far fronte all’ emergenza. Steve Pieczenik, nel 2007, molto tempo dopo il caso Moro, dichiarerà che la sceneggiata era stata organizzata dai servizi segreti su suggerimento dell’ unità di crisi capitanata da Cossiga. Di fatto, quel falso comunicato servì a distogliere l’attenzione delle Forze dell’ ordine da Roma e questo consentì ai brigatisti di spostare Moro da una prigione all’altra. Ma Tony Chichiarelli è anche l’ autore dell’ ultimo comunicato delle BR, il numero 10, diffuso il 20 maggio e subito sequestrato dalla Magistratura con diffida ai giornali a pubblicarlo. L’ unico comunicato realizzato in codice e con una macchina da scrivere analoga a quella usata dalle BR per i comunicati veri. Un codice alfanumerico simile fu rinvenuto in un borsello che il 14 aprile del 1979 Antonio Chichiarelli abbandonò su un taxi di Roma. Al suo interno, come in un rebus, il falsario lascia indizi che riportavano al sequestro e all’ omicidio di Aldo Moro, al falso comunicato del lago della Duchessa e al delitto Pecorelli. Tony vuole chiaramente ricongiungere l’ omicidio del giornalista, appena avvenuto, alla morte dell’ onorevole Moro, con esplicito riferimento ai falsi comunicati BR. Un messaggio oscuro per molti, ma molto chiaro per alcuni. Almeno lo sarà per Francesco Monastero, titolare delle indagini su Tony Chichiarelli: «Il movente dell’ omicidio Pecorelli – dirà il magistrato – va ricercato nel contesto del delitto Moro e, con più precisione, nell’ambito dei falsi comunicati BR». La notte fra il 23 e il 24 Marzo 1984, con quattro complici, il falsario mise a segno una rapina da 35 miliardi di lire svuotando il deposito romano della Brink’s Securmark, che faceva capo a una catena bancaria di Michele Sindona. Sei mesi dopo, il 28 settembre 1984 fu assassinato mentre stava rientrando a casa. L’ omicidio di Antonio Chichiarelli è rimasto senza movente e senza colpevoli. La Commissione Parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, presieduta dall’On. Fioroni, nella seduta del 19 marzo 2015, a pagina 10 del suo resoconto, scriverà: “La rapina alla Brink’s Securmark fu un ringraziamento, una sorta di regalia da parte di chi gli aveva commissionato certe particolari operazioni. È un fatto che dopo trentasette anni si può affermare tranquillamente, anche se non a livello giudiziario”.
Varisco.Il Colonnello e Pecorelli si incontravano spesso: Varisco si occupò dello scandalo Lockheed, delle indagini sul gruppo eversivo Rosa dei Venti, dello scandalo ‘Italcasse’ e del sequestro Moro, inchieste tutte seguite anche dal giornalista. Il Colonnello fu anche chiamato da Vittorio Occorsio nelle prime indagini sulla P2 di Gelli per indagare su una riunione segreta della loggia tenutasi nel 1975, quella loggia che il giudice Occorsio considerava implicitamente legata all’eversione nera. Dopo l’ omicidio di Mino Pecorelli, il Colonnello Antonio Varisco, a soli 52 anni, rassegnò le dimissioni dall’Arma dei Carabinieri. Il 13 giugno 1979, due settimane prima della fine del suo mandato, gli spararono quattro colpi con due fucili a canne mozze e i suoi killer, per coprirsi la fuga, usarono dei candelotti fumogeni, della stessa marca e dello stesso lotto di quelli sequestrati nell’ arsenale della banda della Magliana il 27 novembre 1981. L’ omicidio fu rivendicato dalle Brigate Rosse con una telefonata anonima all’ agenzia ANSA. Nel 1982 arrivò la confessione del neopentito rosso Antonio Savasta e nel 2004 la confessione di Rita Algranati, brigatista della colonna romana coinvolta nel rapimento di Aldo Moro. Non sono mai stati identificati gli altri killer. Men che meno i mandanti. Anche per l’ omicidio Varisco, così come Pecorelli, non è mai stato individuato un movente (al di là delle elucubrazioni di un volantino) e gli esecutori, anche se rei confessi, lasciano molti dubbi: dalle armi usate, due fucili a canne mozze, che fanno pensare a un agguato mafioso e non politico, ai candelotti fumogeni, identici, giova ripeterlo, a quelli custoditi nell’arsenale della banda della Magliana, dove peraltro furono sequestrate anche armi dei NAR, notoriamente di destra. Mai sono state fatte indagini su quei candelotti fumogeni. E niente si sa dello strano e sfortunato incontro in piazza delle Cinque Lune tra Varisco, Pecorelli e un terzo attore della vicenda: Giorgio Ambrosoli, curatore fallimentare della Banca Privata italiana di Michele Sindona. Saranno uccisi tutti e tre nel giro di pochi mesi. Nella «scheda Pecorelli», Tony il falsario – che dimostra di essere molto bene informato – riporta la notizia dell’ appuntamento, ma omette il nome di Giorgio Ambrosoli: perché quella dimenticanza?””

-da pag.108…””La strage continua”.
Aldo Moro. Pecorelli scrisse delle pressioni americane su Aldo Moro e – dopo il successo delle sinistre alle elezioni amministrative del giugno del 1975 – fu tra i primi a rivelare i nuovi interessi americani sulla politica italiana. In un articolo intitolato: ‘Sarà Craxi il nostro Soares?’ il giornalista anticipa l’ ascesa di Bettino Craxi verso la segreteria del partito e scrive: Perché a Washington s’è deciso: il nuovo potere in Italia sarà assicurato da una santa alleanza anticomunista ma riformatrice, tra un PSI e una DC tutti i rinnovati. Il 28 aprile del 1977 Pecorelli pubblica su OP la nota: Allarme a Roma. Si teme il sequestro di un uomo politico, chiamando in causa il Ministro dell’ Interno: «Se Cossiga c’è cerchi di non dormire». Pecorelli insinuava, accusava… invitava a tenere gli occhi aperti. E Aldo Moro non poteva non essere preoccupato, come erroneamente è stato detto e scritto. Il 4 aprile del 1978 Pecorelli rivela: Moro era stato minacciato dalle Brigate Rosse, siamo in grado di rivelare che, da alcune settimane prima del suo rapimento, Aldo Moro era stato raggiunto da messaggi scritti di minaccia. I fogli erano firmati Brigate Rosse e gli venivano inviati sia a casa sia nel suo ufficio in via Savoia. Aldo Moro aveva informato di questi messaggi intimidatori gli uffici competenti. Ma all’informazione non è stata data alcuna importanza. I risultati si sono visti il 16 marzo in via Fani. Il giornalista disponeva di informazioni più che attendibili come emergerà dodici anni più tardi, l’8 ottobre 1990, quando nella stessa ex base brigatista di via Monte Nevoso verrà trovato una seconda copia del memoriale di Moro comprendente brani inediti rispetto alla versione resa nota nel 1978, brani che riguardavano anche i finanziamenti della CIA alla DC e altri che rivelavano la struttura clandestina antiguerriglia poi nota col nome di Gladio. Dichiarazioni che, stranamente, non furono mai rese pubbliche dai brigatisti. Il memoriale ritrovato nel 1990 in via Monte Nevoso appariva diverso, in parti essenziali, da quello sequestrato nel 1978. Era poi incomprensibile come Pecorelli potesse già esserne a conoscenza. Nel numero del 17 ottobre (dopo la scoperta del covo di via Monte Nevoso e dopo l’ incontro con il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa) Pecorelli fu di nuovo profeticamente inquietante chiamando Dalla Chiesa il «generale Amen»: Il ministro di polizia [Cossiga] sapeva tutto, sapeva persino dove era tenuto prigioniero, dalle parti del ghetto [ebraico]. […] Un Generale dei Carabinieri [definito Amen, ovvero dalla Chiesa] […] era andato a riferirglielo di persona, nella massima segretezza […] il ministro non poteva decidere nulla su due piedi doveva sentire più in alto […] la loggia di Cristo in Paradiso con [chiara allusione alla P2].””

-da pag.162…””I pentiti”.
Ex pentiti dei NAR, nei primi anni Ottanta, parlano dell’ omicidio del direttore di OP, incastrano Licio Gelli e i suoi presunti sicari. Walter Sordi, legato alla destra eversiva e dissociatosi dopo l’ arresto, fornisce una prima indicazione sull’ autore materiale dell’ omicidio Pecorelli e dice di aver saputo che Valerio Fioravanti aveva commesso il delitto su commissione di Licio Gelli per conto del quale aveva eseguito altri delitti in Francia. Su questa dichiarazione Cristiano Fioravanti tornerà successivamente, nell’ interrogatorio reso al Giudice istruttore di Palermo il 21 luglio del 1988: Confermo la dichiarazione da me resa al PM di Bologna, dottor Mancuso, il 4 marzo del 1988. Debbo dire però che per quanto riguarda le mie dichiarazioni sull’avvocato Di Pietropaolo, si tratta di mere sensazioni e valutazioni personali, pertanto non le confermo. La Corte di Assise di Bologna nella sentenza del 1° luglio 1988, a pagina 1.667, afferma: “Vi sono cointeressenze processuali fra Licio Gelli e Valerio Fioravanti. Non sono in discussione, naturalmente, la responsabilità per l’ omicidio di Mino Pecorelli che dovranno essere accertate in altra sede dal giudice naturale. Qui occorre semplicemente rilevare come sia provato che, per conto di Gelli, l’ Avvocato Di Pietropaolo, per interposta persona e anche direttamente, intervenne presso Valerio Fioravanti, per raccomandargli di tenere, in ordine alla vicenda dell’ omicidio Pecorelli, un contegno processuale tale che consentisse al Gelli di stare tranquillo e per trasmettergli, quale contropartita, le profferte d’ aiuto del Gelli stesso”.””

Sin qui parti ritenute interessanti del libro.

Ora valutazioni e integrazioni.
A tal proposito la Fanelli ha sottolineato: “Voglio precisare che Vinciguerra non è un collaboratore di giustizia, non ha mai fatto dichiarazioni in cambio di benefici o sconti di pena ed è tutt’ora dietro le sbarre. E tutte le dichiarazioni che ha rilasciato in questi anni sono state verificate dal giudice Salvini e nessuna è risultata falsa. La pistola purtroppo non c’è perché sembra sia andata distrutta così come non ci sono i bossoli raccolti in strada in via Orazio il 20 marzo 1979, e furono sostituiti quando si indagava su Valerio Fioravanti poi prosciolto. Ma la perizia sarà fatta dalla Polizia scientifica di Perugia sulle foto scattate all’epoca e quando le armi furono sequestrate. Quindi, per ulteriori sviluppi dell’inchiesta attendiamo l’esito di questa perizia, afferma l’autrice che annuncia che ci sarà un nuovo processo Pecorelli sulla base delle dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra, ribadite dall’intervista che rilascia in carcere a Opera all’autrice.
Proprio quanto detto da Vinciguerra, peraltro, ha convinto il P.M. Erminio Amelio a riaprire le indagini sull’omicidio, nel febbraio 2019.
Interessante, nel libro, la testimonianza di Stefano Pecorelli, figlio di Mino, che per la prima volta rompe il silenzio dal Sudafrica, dove vive. Con grande lucidità e coraggio il figlio sottolinea come le inchieste del padre siano negli archivi di un paese come l’Italia che è ancora in cerca della verità sul sequestro e sull’omicidio di Aldo Moro. Basterebbe leggere le pagine di OP per rendersi conto che non furono solo le Brigate Rosse ad agire. Ma soprattutto il figlio ricorda come le recenti dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra – ampiamente documentate dal saggio della Fanelli – sono molto importanti perché confermano che i killer che uccisero Mino Pecorelli vanno cercati proprio nell’ambiente dell’estrema destra.
Insomma, un fatto è certo: il 20 marzo 1979 davanti al portone c’era una macchina con una persona che guidava e altre due sedute dietro. Ma a sparare a Pecorelli fu uno solo. Chi? Tutti lo sanno, ma nessuno lo dice.

Concludo affermando, da libero cittadino, libero pensatore, che anche con la lettura di questo interessante libro, comprendiamo come il volto del potere sia costituito da intrecci foschi in cui i confini fra bene e male non esistono.

Per chi volesse approfondire, avendo la pazienza, la complessa vicenda Pecorelli, su questa testata altro mio articolo “Il drammatico processo sull’uccisione del giornalista Mino Pecorelli … con personali ricordi …”

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