La versione di Pazienza

Il racconto inedito dell’ex agente del Sismi

 Roma, 22 febbraio 2022 – FRANCESCO PAZIENZA. Il racconto inedito ( pubblicato a gennaio 2022) dell’ex agente del Sismi protagonista di tanti misteri italiani, l’uomo dei servizi segreti coinvolto in alcuni dei più oscuri misteri della Prima repubblica.

Faccendiere, agente segreto, massone, protagonista di tanti terribili eventi, dalla strage alla stazione di Bologna (2 agosto 1980) alla morte del ‘banchiere di Dio’ Roberto Calvi (17 giugno 1982) e al crac dell’Ambrosiano, ogni volta che si evoca il suo nome si materializza quel fuoriscena del potere che ha governato l’Italia nell’ombra seminando morte e terrore.

Ma chi è davvero Francesco Pazienza? Riprendendo il racconto fatto oltre vent’anni fa nel suo libro “Il disubbidiente” e con il supporto di nuovi documenti, in queste recentissime  pagine è lui a raccontare la sua versione dei fatti. Una versione certamente di parte, ma indispensabile per diradare la nebbia che ancora avvolge un pezzo importante della storia del nostro paese. Pazienza non ci sta ad accollarsi tutta la responsabilità per il crac dell’Ambrosiano, né a passare da depistatore per la strage di Bologna, così ritorna agli ultimi giorni di Roberto Calvi, che lui ha vissuto in prima linea, e racconta i momenti salienti di quella che definisce “la grande abbuffata” dell’Ambrosiano. Era tutt’altro che una banca fallita. Calvi sarebbe stato vittima di un attacco perpetrato da quelli che Pazienza definisce “gli sciacalli”. 

Iniziamo a leggere parti dell’interessante libro.

– da pag.3. “”Sono stato in carcere a lungo, dal 25 novembre 1995 al 17 giugno 2007, prima di essere affidato ai servizi sociali del mio comune. Ho trascorso sei inspiegabili anni di isolamento, accusato di calunnia nell’inchiesta sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 e sul crac dell’Ambrosiano. Anni durissimi e solitari. Sono stato trattato come un pericoloso criminale spacciato per un amico del venerabile Licio Gelli, benché l’abbia conosciuto solo nel 2009. Non era stato lui a presentarmi Roberto Calvi, ma Domenico Scaglione, un italoamericano della Chase Manhattan Bank, eppure no, tutti a dire che era stato Gelli. A quel punto, siccome ero suo amico pur non avendolo mai incrociato, e trovandomi per caso all’aeroporto di Ciampino in un giorno del 1981 insieme al Direttore del Sismi Giuseppe Santovito, sono stato anche ritenuto un depistatore professionale. Per l’orribile strage alla stazione di Bologna. Sono stato sbattuto al 41 bis per otto mesi e 28 giorni, in una cella semibuia del super carcere di Parma. Mi ha tirato fuori un medico dopo un’ispezione, scrivendo nero su bianco che quelle condizioni erano disumane. Era l’ottobre del 1999. Da lì sono stato trasferito al settore 1B, quello riservato ai detenuti per reati sessuali e pedofilia. Prima di essere faccendiere ero stato un giovane di grandi speranze.””

– da pag. 24. “”Missione speciale in Vaticano. Rividi Roberto Calvi due anni e mezzo dopo quel giorno di fine settembre 1978, precisamente nel marzo del 1981. Fui io a cercarlo, dovevo parlargli di Paul Marcinkus, il potentissimo capo della banca vaticana, lo Ior, l’Istituto per le opere di religione. Vi spiego cosa c’entra il Vescovo americano, ma dobbiamo fare un passo indietro. Avevo da poco cominciato la mia nota esperienza con il braccio destro del Direttore del Servizio militare italiano, Giuseppe Santovito. Il 24 novembre 1980 mi aveva affidato una nuova operazione, che divenne poi la ragione che mi spinse a lasciare definitivamente il Sismi. Mi aveva convocato alla fine del pomeriggio per dirmi che il giorno successivo mi sarei dovuto presentare alle 18:30 in Vaticano per incontrare il Segretario di Stato, Monsignor Agostino Casaroli, poi il suo braccio destro, Monsignor Pierluigi Celata. Nello studio di monsignor Celata, capii che dovevo andare dritto al punto: “Posso chiederle qual è la ragione per la quale ho avuto l’onore di essere invitato nel suo studio?“. Il Prelato prese la questione alla larga. Ma poi, a poco a poco, arrivò al nocciolo. E ci arrivò parlando in maniera abbastanza esplicita, senza addentrarsi nei meandri del “curialese”, quel linguaggio contorto in cui non è importante il senso delle parole pronunciate bensì quello che si nasconde dietro. Il nocciolo era, appunto, Paul Marcinkus. La richiesta di Monsignor Celata era chiara: bisognava fare in modo che il Vescovo americano mollasse la presa sullo Ior. Spettava a me trovare il sistema. Ma in realtà ce ne era uno solo: reperire la documentazione in grado di dimostrare come le attività della banca vaticana e del suo capo non si addicessero alla missione della Chiesa cattolica. In poche parole, bisognava creare uno scandalo. Era chiaro che si stava consumando un duro scontro di potere ad altissimo livello all’interno della Curia romana. Ed era chiaro che la motivazione di ordine morale, o moralistico, che monsignor Celata aveva addotto (“Bisogna farsi che lo Ior smetta di svolgere attività poco consone a quelle della Santa madre Chiesa”) non era quella vera. Doveva esserci qualcosa di ben più grave e preoccupante. Non antipatie personali e problemi tra questo e quel prelato, o altre simili bassezze… Marcinkus, piuttosto che un ascetico discepolo della Chiesa, era un uomo pratico. In Vaticano le malelingue della curia gli avevano affibbiato il nomignolo di “Gorilla”, per la forza fisica che mostrava, ma soprattutto perché era diventato la guardia personale di Paolo VI, incaricato della sicurezza del Pontefice  ogni volta che questi lasciava il Vaticano. A poco a poco le sue innate doti di esperto di finanza gli avevano spianato la strada sino a farlo arrivare alla Presidenza dello Ior. Aveva mano libera nelle casse della Santa sede e doveva rispondere solo al Papa. Guidava la banca vaticana con l’impostazione tipica del banchiere, quella secondo cui “pecunia non olet”, “il denaro non ha odore”, qualunque sia la sua provenienza. D’altronde, pensare che le esigenze finanziarie della Santa sede venissero soddisfatte solo attraverso l’obolo di San Pietro era una pia illusione. Subito dopo l’ascesa al soglio pontificio di Papa Giovanni  Paolo II, aveva continuato a conservare la responsabilità della banca Vaticana e a fare da guardia del corpo anche al nuovo Pontefice. Gli era accanto in tutti i suoi viaggi e aveva trovato con lui un’intesa particolare, probabilmente facilitata dalle loro comuni origini est europee. Marcinkus aveva dato prova di affidabilità e solidità fin dall’inizio del nuovo pontificato. Con efficacia e prontezza, Marcinkus aveva spianato la situazione. Il Papa gliene era stato molto grato e questa vicenda aveva rafforzato ancora di più il legame tra Giovanni Paolo II e il Presidente dello Ior. Wojtyla lo aveva nominato Arcivescovo e Presidente della pontificia commissione per lo Stato della Città del Vaticano, l’organo che detiene il potere legislativo e sovrintende a tutta l’amministrazione generale e alle finanze del Vaticano, le proprietà immobiliari, i musei, i giornali, le stazioni radio e la burocrazia. Insomma, nella scala del potere, Marcinkus aveva raggiunto la posizione numero tre,dopo il Santo padre e il Segretario di Stato al punto che sembrava ormai imminente la sua nomina a Cardinale.””

– da pag.36. “”Wojtyla, fin dalle sue prime mosse, dal punto di vista “politico” aveva lasciato intuire che il Vaticano sarebbe andato in direzione di una linea dura, di scontro frontale con il Cremlino e i paesi satelliti. Tra le motivazioni che hanno spinto il Sacro collegio a eleggere per la prima volta dopo secoli un Papa non italiano, il primo proveniente dall’Est europeo, c’era quella di dar voce alla cosiddetta “Chiesa del silenzio”, a quei cristiani soggiogati da decenni di regimi totalitari. Il contributo che un Papa polacco avrebbe portato al processo di crisi del sistema comunista, crisi che il Vaticano analizzava già allora come irriducibile e forse imminente, sarebbe stata enorme. Mosca conosceva benissimo la pericolosità di Wojtyla, fin dal giugno 1962, quando a Cracovia, in qualità di Vescovo ausiliare, reggeva la Diocesi in attesa che il Papa nominasse il successore dell’Arcivescovo Eugeniusz Baziak. Invano il primate di Varsavia, Stefan Wyszynski, aveva proposto numerosi candidati: erano stati tutti bocciati dal regime comunista, che invece sperava nella designazione del giovane Wojtyla, considerato più aperto e disponibile al dialogo con il regime. Ovviamente quello che per i comunisti polacchi era un pregio, per Wyszynski era un difetto: il regime pensava di poter manipolare senza problemi Wojtyla, il Cardinale temeva che ci riuscissero. La storia dimostra che si sbagliavano entrambi.

Un segno evidente di questa linea dura, con cui il Papa polacco aveva voluto improntare il suo modo di occuparsi dei problemi che ribollivano al di là del muro di Berlino, era rappresentato dagli appoggi espliciti e non solo a parole, che lesinava a Lech Walesa e al suo sindacato libero e cattolico, Solidarnosc. Informazioni che arrivavano da più fonti mi confermavano che il supporto finanziario all’organizzazione clandestina dei lavoratori polacchi era davvero considerevole. I flussi di denaro confluivano a Varsavia attraverso lo Ior e, più concretamente, attraverso l’istituto finanziario che faceva da alleato laico per eccellenza della banca vaticana e di Marcinkus: il banco Ambrosiano,  il cui presidente era Roberto Calvi.””

Giro di boa, eccomi consulente di Calvi. L’incontro successivo fu ancora più chiarificatore. In quell’occasione Calvi mi domandò quello che non aveva mai usato nell’appuntamento in via della Conciliazione:“Perché mi racconta tutto ciò che in Vaticano le hanno chiesto di fare contro Marcinkus e di riflesso contro di me? Che interesse ha?” Senza metafore gli risposi: “È molto semplice. Le informazioni in mio possesso mi fanno ritenere che indebolire Marcinkus significhi  indebolire Sua Santità, e soprattutto quanto sta facendo contro l’Unione Sovietica. La battaglia contro Marcinkus altro non è che una guerra contro il Pontefice e la sua politica nei confronti del blocco comunista.””

All’ombra della P2. Della loggia P2 avevo sentito parlare per la prima volta nell’ottobre dell’anno precedente a Caracas dal Generale Ennio Battelli, il Gran Maestro della massoneria italiana, e da Spartaco Mennini, il suo Grande Segretario, che mi avevano fatto la testa come un pallone in proposito. “Lei appartiene alla P2?” Incalzai Calvi. Per tutta risposta arriva nella cornetta del telefono una specie di mugugno che non significava né sì né no. Era chiaro che si sentiva scoperto. “Presidente, io non so nulla di questa vicenda… Comunque, domani rientrerò a Roma, raccogliere un po’ di notizie poi la cercherò immediatamente.” Appena arrivato a Roma notai subito che il mondo politico era in ebollizione da quando i Magistrati milanesi avevano perquisito la villa del maestro venerabile. Circolavano in città una serie di liste di iscritti alla P2, tutte rigorosamente false tutte spacciate come rigorosamente vere. La “girandola“ sarebbe andata avanti per qualche mese, fino al momento in cui, a maggio, il Presidente del consiglio Arnaldo Forlani decise di rendere pubblica la vera lista degli aderenti, quella trovata dalla Guardia di Finanza a Castiglion Fibocchi. Ciò che fin dall’inizio mi era parso assai curioso e singolare era che gli appartenenti alla loggia P2, nella maggioranza dei casi, non si conoscessero l’un l’altro. Evidentemente Gelli aveva trovato più conveniente evitare di farli incontrare, in modo da mantenere la sua figura centrale e di rendersi indispensabili in quel crocevia di interessi, di affari e di potere.””

– da pag.61. “”Calvi arrestato! Roberto Calvi fu arrestato nella sua abitazione milanese.  L’accusa era di esportazioni illecita di capitale. Al presidente della più grande banca privata italiana non fu risparmiata l’onta delle manette. Fu caricato sul cellulare tradotto al carcere di Lodi. Tre giorni dopo accade un altro fatto incredibile. Giovanni Paolo II fu ferito dai colpi di pistola di un attentatore mentre passando a bordo di un’auto aperta in Piazza San Pietro e stava benedicendo la folla di fedeli. A sparargli, alle 17:17, era stato un turco, Mehmet Ali Agca, con la sua calibro nove. L’attentato, per fortuna, era fallito. Il Papa era vivo, seppur gravemente ferito all’addome e al dito di una mano. La notizia mi arriva un paio d’ore dopo. Fu Marcinkus a comunicarmela per telefono nel mio ufficio romano. Era alterato e furibondo. Ci eravamo incontrati poco tempo prima, anzi mi aveva convocato d’urgenza nel suo studio e io mi ero precipitato all’interno delle mura vaticane senza nemmeno lontanamente immaginare la ragione di tanta fretta. “Ma voi italiani siete dei pazzi furiosi?” Mi aveva detto allora, imbufalito arrabbiatissimo. Mi aveva raccontato che la Procura della Repubblica di Roma stava conducendo un’indagine giudiziaria su vari ordini religiosi della Santa sede ed era disposta a  perquisizioni in tutti Italia. Il reato che veniva ipotizzato riguardava presunte violazioni della famigerata legge 159, quella relativa all’esportazione illecita di capitali. L’ipotesi della Magistratura era la seguente: suore, frati e preti raccoglievano in Italia denaro per le loro missioni e poi, tramite lo Ior, inviavano le donazioni alle loro sedi sparse in tutto il mondo, violando la legge italiana.””

– da pag.126. “”L’Ambrosiano deve morire. Oggi posso dire che il trucco del banco Ambrosiano non è stato un crac. La cassaforte dell’impero finanziario creato da Calvi non era, infatti, così vuota come si voleva far credere, e come le sentenze della Magistratura hanno voluto far credere. “Il crac del secolo“, “migliaia di miliardi nel fallimento del Banco Ambrosiano”, “la voragine del Banco”, “la P2 ha svuotato i forzieri di Calvi”: i giornali del tempo hanno trasmesso la verità ma, come noto, la verità a più facce. In confronto al dissesto dei nostri giorni del Monte dei Paschi di Siena, quello dell’Ambrosiano era uno scherzo. Secondo la magistratura, io avrei partecipato alla “spartizione del bottino”. Mi hanno condannato per questo. Senza voler mai prendere in considerazione interessanti scoperte cui sono pervenuto tramite personalissime e minuziose indagini in grado di capovolgere la verità ufficiale e che ho rapporti in una relazione, depositata alla Magistratura di Milano. Roma e anche presso la Corte federale degli Stati Uniti, precisamente negli uffici del Distretto Manhattan sud di New York. Delle mie obiezioni non vi è traccia negli atti giudiziari giudiziari.  Condannato.  Non mi sono mai sottratto alle mie responsabilità. La galera me la sono fatta tutta… Ma il carcere duro non me lo meritavo. Dei 13 anni di carcere totali, sei me li sono fatti in isolamento, di cui nove mesi al 41bis, il carcere riservata ai mafiosi.””

Sin qui parti del libro.

Concludendo, facciamo bene a ricordare un grande italiano inserito nel panorama bancario e sociale di quei famigerati anni, l’Avvocato Giorgio Ambrosoli. Una persona normale, con una professione e una famiglia, che affrontò con coraggio consapevole il rischio di essere ucciso. E questo per alta coscienza civile e senso altissimo dello Stato; tutto questo, per senso di onestà adamantina. Morì il 12 luglio del 1979, a causa della sua attività di Commissario liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona,  più volte citato.  Siamo in molti oggi ad avere il sospetto che il nome di Ambrosoli sia sconosciuto ai più; mentre tutti conoscono quello di Giulio Andreotti che lo definì, ai microfoni della radio, “uno che se l’era andata a cercare…”.

Bene, in tale quadro sento, da liberale, libero Cittadino libero pensatore non grembiulato, il dovere di raccontare quel che successe all’Avvocato Ambrosoli e, nel far ciò, tentiamo di spiegare quali sono i legami che uniscono la massoneria a Cosa Nostra, che è la negazione di qualsiasi civile principio.

A spiegarlo è il giornalista  Piero Messina che, nel suo interessante libro inchiesta (che invito a leggere) dal titolo piuttosto emblematico “Onorate società. Mafia e massoneria, dallo sbarco alleato al crimine globale, cento anni di trame oscure” (BUR- Rizzoli), fa un’ ottima analisi dei fatti che diedero linfa al trinomio mafia, massoneria deviata e apparati istituzionali.

“Un grumo di potere assoluto, capace di solidificarsi giorno dopo giorno e di superare indenne le stagioni della politica, anche cambiando pelle. In nome di questa triplice alleanza sono stati sciolti e ricomposti partiti politici; destituiti Governi, corrotti Giudici, politici, amministratori; tentati golpe; sostenute, alimentate e protette fazioni criminali; fatte esplodere bombe; uccisi Magistrati e uomini delle Forze dell’Ordine. Un vero massacro della democrazia. È accaduto – argomenta – perché ognuno dei tre attori, le mafie, la politica e le massonerie deviate, hanno potuto contare su un sistema di relazioni a livello locale e globale: una rete di protezione, una sorta di Patto Atlantico sotterraneo che spesso ha inciso sul destino della democrazia italiana”. Nel capitolo 7 del libro (pag.144), dal titolo “Soldi, Grembiuli e Veleni”, l’autore parte da lontano, raccontando la storia di un ragazzo del 1920 di Patti, Michele Sindona, che studiò dai Gesuiti e si laureò in Legge, diventando in breve un mago della finanza a cui si rivolgevano compagnie immobiliari e industrie per la quotazione in borsa o anche per trasferire all’estero capitali. La cronaca, alla fine della sua storia, lo descrisse come un grande criminale, ma sono ancora oggi in tanti a dovergli qualcosa: è proprio il banchiere di Patti a cambiare le regole della finanza italiana, importando metodi, strumenti e il linguaggio di Wall Street. La sua ascesa presentava già parecchi punti oscuri. Sul suo conto iniziarono ad indagare gli investigatori statunitensi che guardavano con sospetto alle sue relazioni, peraltro non nascoste, con membri delle cosche mafiose Gambino e Inzerillo, che stavano facendo enormi fortune con il narcotraffico. A metà degli anni sessanta l’impero finanziario di Sindona finì sotto l’influenza del Vaticano, per cui le attività della sua banca si legarono allo IOR, volendo così creare un fronte cattolico nella finanza italiana, tale da operare sotto le direttive della DC di Andreotti, Piccoli e Fanfani. Nel 1972 Sindona acquistò la Franklin National Bank, una delle prime banche USA; nel 1974 Giulio Andreotti ne esaltò le lodi definendolo il “salvatore della lira”, ma proprio in quel periodo il suo impero iniziò a vacillare in quanto il mercato azionario americano stava per crollare e in pochi mesi la Franklin perdette quaranta milioni di dollari. L’8 ottobre 1974 la banca di Sindona fu dichiarata insolvente per frode e cattiva gestione. La Banca d’Italia, quindi, proseguendo il suo lavoro di accertamenti e controlli, nominò un Commissario liquidatore per la Banca Privata Finanziaria nella persona di Giorgio Ambrosoli.  Quell’incarico fu una vera e propria condanna a morte  perché il legale scoprì subito che l’universo delle società di Sindona aveva una doppia contabilità utilizzata per occultare la provenienza di capitali sospetti e finanziare attività illecite. Già a febbraio 1975, Ambrosoli scriveva alla moglie Anna una lettera che era una sorta di testamento morale e civile. Proprio nel 1975, Sindona (massone P2) e Gelli tentarono di elaborare piani di salvataggi per quella Banca, interloquendo con Andreotti e il Ministro Gaetano Stammati (anche lui P2), il cui addetto stampa era il giovanissimo giornalista Luigi Bisignani, ben noto alle cronache attuali per vicende “affaristicopiqquattriste”. Non mancò, Sindona, di rivolgersi anche al fratello frammassone Roberto Calvi, il manager del Banco Ambrosiano, nel tentativo poi non riuscito per rifiuto dello stesso Calvi. Quel banchiere, Calvi, vogliamo ricordarlo, il 18 giugno 1982 fu trovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri sul Tamigi, a Londra, città dove si era nascosto dopo il fallimento della sua banca, accompagnato da Flavio Carboni (poi prosciolto definitivamente da ogni accusa), ma ancora ben noto alle cronache più recenti su vicende P4.

Arriviamo così, dopo aver descritto il mondo mefitico in cui operava l’avvocato Ambrosoli, a quel tragico 12 luglio, quando venne ucciso da picciotti di alta caratura giunti appositamente dagli USA.

Concludiamo, con questa considerazione dell’autore del libro, Piero Messina, che facciamo nostra, facendo riferimento al distacco e al disinteresse degli Italiani dalle questioni dell’alta politica.

Quindi, stare zitti o parlare? Certamente parlare, e noi aggiungiamo: a voce alta per indignazione!, per far sì che l’Italia resti nell’alveo dei Paesi su cui scommettere per il futuro; e questo perché il passato e le sue ombre ci inseguono.

Sino a quando non saranno sciolti i dubbi sulle relazioni scellerate tra mafia, istituzioni e massoneria deviata, resterà sempre attuale il rischio di essere spinti nel baratro, trascinati in fondo a causa di un destino segnato da….una cattiva stella. Che fare?

Affidiamoci per l’ennesima volta, con fiducia, al mitico “Stellone d’Italia”!!

 

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