Cinque anni dopo, con la III guerra d’indipendenza (1866), si aggiunsero le popolazioni venete e, nel 1870, quelle dello Stato della Chiesa. Il Governo unitario operò efficacemente in questo compito eccezionale, grazie alle strutture della burocrazia sabauda, oltremodo efficienti, cui però si contrapposero accertate difficoltà derivanti soprattutto dalla coscrizione obbligatoria, dal passaggio alla moneta unica e dallo scioglimento delle formazioni militari del Regno Borbonico. Da ciò scaturì un rifiuto ideologico che favorì la formazione di una imponente criminalità, a sua volta alimentatrice di un feroce e diffuso brigantaggio. Il contesto socio-economico era difficile: le gesta dei Mille di Garibaldi avevano suscitato nelle popolazioni contadine del Mezzogiorno grandi sogni di uguaglianza civile ed economica ma, dileguata l’illusione dei primi entusiasmi, le disparità sociali apparvero ancora radicate. Mentre la nobiltà latifondista, germinata dalle ingiustizie del Feudalesimo, si esaltava al pensiero delle proprie idealità politiche, la plebe rurale si dibatteva in mille difficoltà, suo pane quotidiano. Francesco II di Borbone (soprannominato “Franceschiello”), intanto, si trovava esule a Roma ed era accusato, con la moglie Sofia (l’Aquilotta bavara di d’Annunzio), forse ingiustamente, di armare delinquenti e pluriassassini. Conseguenza di ciò fu la legge Pica (1863) che, in cinque brevissimi articoli, metteva la repressione giudiziaria nelle mani della Giustizia Militare rimanendo operante sino alla fine del 1865. La circolare n.29 del Ministero della Guerra (G.M.Ufficiale del 1863, p.461) motiva il provvedimento “per la necessità di rendere più pronta, più esemplare ed energica l’azione della Giustizia” ed istituisce i Tribunali Militari di Guerra a Potenza, Foggia, Avellino, Caserta, Piedimonte (per la provincia di Benevento), Campobasso, Gaeta, Aquila e infine Cosenza. La lotta al brigantaggio, com’è noto, impegnò severamente l’Esercito, e molto l’Arma. Innumerevoli sono gli atti di valore, con numerosi caduti sul campo. Sui Giornali Militari Ufficiali dell’epoca si legge l’articolazione dello “Scompartimento Territoriale dell’Arma dei Carabinieri Reali – Ripartito in Comandi di Legioni, Province, Circondari, Sezioni e Stazioni”, con l’evidente obiettivo di rendere le Stazioni un importante emblema dello Stato, un notevole strumento per amalgamare negli anni a venire le diverse culture ed economie della Penisola, il vero ed unico presidio di legalità per tutti i cittadini. Da documenti originali dell’epoca si rileva che in Calabria, nel 1863, esistevano due Divisioni (gli attuali Comandi Provinciali), a Cosenza e Catanzaro, con sei Compagnie, sette Luogotenenze e 126 Stazioni, con una forza di 38 Marescialli, 125 Brigadieri, 707 Appuntati e Carabinieri “dell’Arma a piedi”; 10 Marescialli,36 Brigadieri,210 Appuntati e Carabinieri “dell’Arma a cavallo”. Apprendiamo inoltre che nel 1864, le Divisioni erano diventate tre, essendo stata istituita la Divisione (oggi Comando Provinciale) di Reggio Calabria, con un aumento della forza complessiva. Per brevità cito solo due episodi relativi ai primi anni di questa cruenta lotta. Il primo: “Nelle ore pomeridiane del 26 ottobre (1863), il Brigadiere Tassi Domenico ed il suo dipendente Carabiniere Merlo Giovanni, della Stazione di Savelli, nonché varii militi di quella squadriglia di volontari perlustrando in tenimento di Casabona (Circondario di Cotrone), scorgettero un individuo armato fino ai denti ed a cavallo, che nel vederli si slanciò alla gran carriera sostando in un fitto bosco ove, gettatosi dal quadrupede ed abbandonatolo, rimpiattossi. Nacque quindi in loro il sospetto che costui fosse qualche malfattore decretato d’arresto dalla Giustizia, epperciò frettolosi si posero a tenergli dietro per sorprenderlo nel nascondiglio.. (ne seguì un violento conflitto a fuoco e l’uccisione del fuggitivo).. riconosciuto pel famigerato brigante Acri Vincenzo, alias Potano, flagello della Calabria Citerione (oggi provincia di Cosenza e Crotone), in cui trascorse la maggior parte della scellerata ed ignominiosa sua vita perpetrando ogni sorta di nequizie e nefandità”. Il secondo: “Verso il meriggio del 5 dicembre (1863), un’orda brigantesca s’appropriava violentemente in territorio di Bianchi (Circondario di Cosenza) d’un numeroso branco di pecore a danno di varii proprietarii del luogo e spediva per mezzo del pecoraio biglietto ai medesimi chiedendo loro ingente somma di danaro. Appena arrivata la notizia del fatto in paese, muovevano sulle traccie dei masnadieri i Carabinieri della Stazione locale con taluni della limitrofa d’Acrifoglio ed un drappello della Guardia Nazionale, imprendendo un’accurata perlustrazione pei siti battuti dai malandrini … scoperti il dì successivo i ricercati, gli attaccò energicamente e con intrepido slancio, e dopo di aver ricuperato le bestie involate, che i briganti abbandonarono vedendosi inseguiti, ruppe in conflitto con essi, traducendone uno in arresto e fugando gli altri … Il brigante arrestato era certo Aiello Stefano, da Parenti, giovane d’età e nella vita brigantesca, ma crudele e feroce al pari dei provetti ribaldi del suo conio”. Non è questa la sede per ricordare i tanti (certamente troppi) episodi in cui sempre rifulsero le non comuni qualità morali e professionali dei Carabinieri, ma vorrei almeno citare il “Rapporto del Generale Amulfi al Ministro della Guerra”, in cui si legge che la distruzione del brigantaggio in Calabria deve essere considerata opera dei Carabinieri Reali con il concorso delle Guardie Nazionali, come, ancora, la relazione su “Il Brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863Ogni encomio sarebbe minore al merito di quest’ Arma benemerita e insigne; la sua condotta morale, il modo urbanissimo col quale disimpegna il suo servizio, il suo contegno sono superiori ad ogni elogio. Queste popolazioni ne sono in ammirazione e ben a ragione, perocché, avendo tuttora presente il modo vile, dispotico, burbero e brutale con cui erano trattate prima non le par vero che il servizio politico e l’ordine pubblico si possano tutelare con tanta moderazione, prudenza e dignità di modi, come ora fanno i nostri Reali Carabinieri”, del conte Alessandro Bianco di S. Joroz (già nel Corpo Reale di Stato Maggiore Generale) il quale, dopo avere denunciato le carenze dello Stato, scrisse: “Ben diversamente debbo dire dei Reali Carabinieri”. Le ricompense al Valor Militare assegnate durante la lotta al brigantaggio all’ Arma furono molte: 1 Medaglia d’Oro, 4 Croci dell’Ordine Militare di Savoia, 531 Medaglie d’Argento e 748 Menzioni Onorevoli. In Calabria, dove intanto si era formata l'”Onorata Società” (progenitrice della ‘Ndrangheta), negli ultimi anni del secolo XIX, si segnalarono le gesta criminali del ben noto e pericolosissimo bandito Giuseppe Musolino che, evaso dal carcere di Gerace, durante una movimentata latitanza, si rese colpevole di numerosi delitti. La sua avventurosa cattura avvenne presso Urbino il 9 ottobre 1901 ad opera di Carabinieri, comandati dal Brigadiere Antonio Mattei, padre del mitico Presidente dell’ENI, Enrico. Ed è così che l’Arma, ormai fortemente ed efficacemente organizzata, ha continuato a svolgere la sua nobile missione di legalità e civiltà con assoluto senso del dovere e totale spirito di sacrificio, sempre commisurando fermezza e moderazione, tanto da vedersi attribuire da tempi lontani l’appellativo di BENEMERITA! Ed è proprio con questo viatico che “..l’Arma della Fedeltà immobile e dell’abnegazione silenziosa…”, come la definì il Vate della nuova Italia, il sommo Gabriele “Ariel” d’Annunzio, si accinge l’anno prossimo a celebrare il Suo duecentesimo genetliaco ricco di memorie illustri, ma auspice di ulteriori nobili traguardi in difesa del Cittadino e dell’Ordinamento.