L’ULTIMA FRONTIERA DELL’IPOCRISIA LINGUISTICA: I “DIFFERENTEMENTE ABILI”

Più che rendere politicamente corretto il linguaggio si dovrebbe favorire concretamente chi combatte la battaglia quotidiana di una vita difficile

Da decenni ormai la lingua italiana (e non solo) è tenuta in ostaggio dal “politicamente corretto”, la mania di eliminare termini ritenuti anche solo potenzialmente offensivi verso alcune categorie, soprattutto soggetti colpiti da invalidità e menomazioni. Il processo di edulcorazione era partito coniando nuove espressioni per definire coloro che tutti i giorni facevano i conti con problemi tanto pesanti quanto variati: in tal modo ciechi, paralitici, sordi diventarono miracolosamente non vedenti, non udenti o audiolesi, artolesi. Questo pur proseguendo a non vedere, non sentire, non camminare. Stesso destino fu riservato a coloro che, affetti da una particolare malattia genetica, erano stati chiamati per anni “mongoloidi”: diventarono “Down”, dal nome del medico inglese che per primo descrisse tale patologia. Peccato però che fosse stato proprio lui a usare nei suoi scritti la parola giudicata lesiva della dignità di quelle persone. Volendo poi raggruppare in un’unica espressione tutte queste condizioni di obiettiva difficoltà si iniziò a parlare di “andicappati”. Ci si accorse però che nell’uso comune il termine veniva usato per ingiuriare chi fosse poco portato in qualche attività e si passò quindi a “portatore di handicap”; questo suonava involontariamente comico per l’accostamento di individui spesso in grado di portare proprio nulla all’immagine degli sherpa sull’Himalaya. Fu così che nel linguaggio comparvero i “disabili”, naturalmente continuando gli interessati a vivere tra difficoltà di tutti i generi. E ci si poteva fermare qui, aiutandoli intanto sulla sostanza più che sulla forma: non si è mai sentito alcuno offendere il prossimo dicendogli «sei proprio un disabile». Nemmeno per idea: i disabili si trasformarono presto (significando il prefisso “dis” la negazione di qualcosa: orrore!) in “diversamente abili”. Ultimamente è stata toccata la vetta dell’ipocrisia e della demenza quando è capitato di sentir dire in radio “differentemente abili”, forse perché evocare qualche diversità risultava vagamente discriminante all’orecchio benpensante dei sinceri democratici. Il dubbio, a questo punto legittimo, è che chiunque si sposti su una sedia a rotelle (pardon, carrozzina o “deambulatore”) o non possa vedere la vita intorno a sé, preferirebbe essere aiutato nei fatti e non con queste acrobazie linguistiche utili soltanto a indorare l’amara pillola di un’esistenza trascorsa a combattere da una parte con un corpo o una mente che fanno quel che par loro e dall’altra con mezzi pubblici inaccessibili o con l’inciviltà cavernicola di chi si sente fieramente progressista dicendo “differentemente abili” e poi piazza la macchina davanti lo scivolo per farli scendere dal marciapiede.
 
 
 
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