Proteggere le missioni umanitarie
Nel corso dell’ultimo decennio, ogni anno si sono verificati più di cento attacchi contro personale umanitario internazionale, con una recrudescenza particolare in Somalia, Afghanistan e Darfur.
Le Nazioni Unite non potevano non preoccuparsi di tale situazione, e ne è scaturito uno studio elaborato dall’ “Office for the coordination of humanitarian affairs (Ocha)”, dal quale emerge la necessità, per gli attori impegnati sul campo, di seguire alcune essenziali linee di con dotta soprattutto nei paesi teatro di conflitti armati. L’accesso alle popolazioni coinvolte nella violenza diventa sempre più difficile a causa degli attacchi mirati al personale umanitario, degli alti livelli di criminalità e banditismo, degli attentati terroristici in aree civili. Distribuire aiuti alle popolazioni in ambienti insicuri comporta un rischio; occorre quindi un’ attenta analisi prima dell’ assunzione di decisioni. Il dialogo è sempre opportuno, e per giungere all’accettazione dell’azione umanitaria da parte delle autorità locali, occorre adottare un approccio che comprenda tutto ciò non come un evento, ma come un processo, che richiede tempo, presenza e continuità d’impegno. Le misure di sicurezza vanno accompagnate da comportamenti basati sull’accettazione, quando i lavoratori dell’assistenza diventano chiaramente dei bersagli in ambienti insicuri. Il tema della sicurezza è strettamente legato a quello della responsabilità.
Dopo l’attacco alla sede dell’Onu a Baghdad nel 2003, ha preso l’avvio una riflessione sulla responsabilità giuridica degli Stati nei confronti del personale umanitario operante sul proprio territorio, e su quella del datore di lavoro nei confronti del proprio personale, con particolare riferimento alle associazioni no profit e alle Ong. Il ragionamento parte dalla constatazione che l’impresa umanitaria non è più un’opera caritatevole e filantropica, ma un vero e proprio business globale di miliardi di dollari. Nello specifico, sono state elaborate apposite linee-guida; le entità più importanti si sono dotate di uffici per la sicurezza guidati da specialisti; procedure operative sono state stabilite; manuali di sicurezza e di addestramento sono stati approntati (i più noti sono quelli della Croce Rossa Internazionale). Malgrado ciò, ancora parecchie Oia non prevedono risorse organizzative per proteggere il loro personale dai pericoli delle zone a rischio. Non che le Oia si muovano al di fuori di ogni cornice giuridica. V’è la legislazione nazionale sui rapporti tra datori di lavoro e dipendenti. Vi sono gli standards relativi all’aspetto finanziario, con requisiti finanziari da rispettare e da sottoporre a controlli esterni. Sono leggi e regolamenti nazionali concernenti la previdenza sociale e gli obblighi di assicurazione sanitaria. Ma dovrebbero obbligatoriamente esistere disposizioni vincolanti (non facoltative) sul dovere di salvaguardare l’integrità fisica dei dipendenti nelle zone a rischio. La sicurezza non è soltanto un imperativo morale, ma un obbligo giuridico, disciplinato da normative da applicare coercitivamente. Ogni responsabile di entità impegnate in ambienti ostili è chiamato quotidianamente ad assumere decisioni sul modus operandi del proprio personale: e se nonostante ogni possibile diligenza un grave incidente si verifica, vi saranno problemi non solo etici e morali, ma di responsabilità giuridica.
Qual’è la posizione delle Oia italiane di fronte a questa nuova problematica? Vediamo innanzitutto la base giuridica. Oltre agli articoli 2043, 2049 e 2087 del Codice civile, viene preso in considerazione il decreto legislativo n. 81 del 9 aprile 2008 contenente norme sulla sicurezza del lavoro, dove tra l’altro si dispone che il datore di lavoro debba compilare il documento di valutazione del rischio, con l’analisi di tutti i pericoli per la sicurezza del luogo di lavoro, e l’indicazione delle misure da adottare per proteggere i dipendenti. Da quanto esposto risulta che ormai chiunque si dedichi ad attività umanitarie sul piano internazionale deve confrontarsi con difficoltà e minacce anche gravi.
Considerato il trend di crescente pericolo in cui operano le organizzazioni umanitarie, l’attuale autoregolamentazione delle tematiche di safety and security dovrebbe essere rivista in termini di obbligatorietà dell’azione di tutela.