Roma, 23 febbraio 2019 – Ho avuto il piacere di ricevere l’invito dall’Amico Colonnello Luigi Cortellessa alla conferenza: “D’Annunzio e il volo“, che il Prof. Tobia Iodice ha tenuto il 28 gennaio scorso presso il Comando Carabinieri Tutela Agroalimentare, in Roma, retto, appunto, dal dinamico e colto Comandante Cortellessa, al quale rinnovo il ringraziamento per il bellissimo e riuscito evento..
Il Prof. Iodice, docente di Italiano, ha tenuto in tutta Italia incontri dedicati all’opera di Padre Dante, Ariosto, Foscolo, Carducci, ed in particolare sul Vate d’Italia Gabriel Ariel d’Annunzio, pubblicando interessanti volumi sul Suo pensiero e la Sua grande e purtroppo non più tanto conosciuta opera..
Nella circostanza, l’illustre Docente ha commentato il Suo ultimo volume: “Come un sogno rapido e violento”, sul periodo trascorso a Napoli (1891-1893).. Leggendo il testo riviviamo quel periodo aureo della vita del Poeta, apprendendo..(da pag 12)..che la fortuna aveva bussato alla sua porta nel febbraio del 1883, quando aveva incontrato la giovanissima Maria Hardouin dei Duchi di Gallese, restando sinceramente folgorato dalla sua disarmante bellezza. Sedurla a colpi di lettere infuocate, regali folli e rime d’amore, concupirla e infine portarla all’altare con un matrimonio riparatore, era stata per lui una inebriante corsa in discesa. Ma nonostante i tre figli che erano nati, le promesse di quel matrimonio erano durate poco. Tra il 3 luglio del 1883 quando era stato celebrato, e lo stesso mese del 1890 quando donna Maria aveva abbandonato il tetto coniugale, il grande seduttore aveva infatti inanellato una lunga sequela di amanti. Nello sterminato carnet delle donne da lui sedotte, ad un certo punto, una si era fatta prepotentemente largo, riempiendo quel suo inesauribile bisogno di “esercitare lo spirito, di servire lo Spirito, nell’Orgia..”. Si chiamava Elvira Natalia Fraternali, ma secondo un suo consolidato verso D’Annunzio l’avrebbe ribattezzata Barbara, per la sua statura imponente, i suoi capelli del colore della notte i suoi grandi occhi scuri. La straordinaria complicità sensuale e spirituale instauratasi con lei, fedelmente fotografata nelle 1090 lettere del loro epistolario amoroso, aveva ispirato al futuro Vate d’Italia molte delle poesie poi racchiuse in alcune delle sue raccolte più importanti, oltre a fornire gli spunti, modelli e materiale che sarebbero poi confluiti nei suoi romanzi. Primo fra tutti “Il Piacere”. Per trovare il raccoglimento necessario a “capolavorare”, D’Annunzio aveva scelto quella che in un certo senso considerava la sua casa dell’anima, quella dove si era formato come uomo e come artista: l’antico convento di Francavilla al Mare (affettuosamente chiamato il “Conventino” dall’amico Francesco Paolo Michetti, “il Signore del Pennello”, come aveva scritto una volta). Al suo apparire “Il Piacere” era stato un successo straordinario. La fama raggiunta non l’aveva però saziato. (Da pag 16)..Era stato solo allora che, sconsolato, senza più un soldo ma soprattutto senza più una prospettiva sicura né per se stesso né per il suo lavoro, il futuro Vate aveva cominciato ad accarezzare l’idea di accettare l’invito di Michetti ad accompagnarlo a Napoli. Ciccillo (come familiarmente chiamava l’amico), avrebbe dovuto starci pochi giorni giusto il tempo di incontrare alcuni vecchi amici e definire i particolari di alcuni suoi lavori. Per lui, invece, sarebbe stata semplicemente l’occasione per vedere una città che non conosceva ma che lo aveva sempre incuriosito, e poi rientrare presto a Francavilla per decidere sul da farsi. Quando la sera del 29 agosto del 1891 si sedette nel treno diretto nel capoluogo campano, Gabriele non immaginava quindi nemmeno lontanamente che per la sua vita, per la sua arte, e per i destini dell’intera letteratura italiana – e forse anche Europea – quel viaggio verso il sole sarebbe stata di sola andata. (Da pag 24)..Ma la Napoli che accolse D’Annunzio non era solo la sua storia, la sua gente, i suoi tesori. Nonostante da ormai tre decenni non fosse più la capitale di uno dei regni più vasti e importanti dell’Europa del XIX secolo, era ancora i vertici della cultura nazionale ed internazionale. Fu così che nella bella casa di Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao (grandi giornalisti che crearono “Il Mattino” nonché autorevoli critici letterari), a Corso Umberto, l’odierno viale Elena, a pochi passi dal mare di Mergellina, in tre sere consecutive Gabriele lesse loro tutto “L’Innocente”.. L’esito di quella lettura è riportato in una lettera spedita a Ciccillo martedì 8 settembre: “Il mio romanzo è parso ad Edoardo, che l’ha letto, un capolavoro”. Dopo aver dunque annunciato che Gabriele D’Annunzio era a Napoli per riposarsi dalle dure fatiche letterarie, e dopo aver sottolineato i pregi de Il Piacere, donna Matilde fece quindi in quelle righe di suoi articoli la prima entusiastica recensione de L’Innocente e da letterata finissima qual’era non mancò di cogliere nel segno, sottolineando gli elementi di novità nella forma e nei contenuti del nuovo romanzo dell’amico. Ma se quelle parole dovettero essere un balsamo per le orecchie di Gabriele, in cui certamente ancora risuonavano le accuse di immoralità e di scarsa originalità che gli aveva mosso appena due mesi prima il grande editore Emilio Treves, ciò che più dovette fargli piacere leggere fu l’ufficializzazione dell’acquisizione da parte del Corriere del romanzo, e la notizia della sua prossima pubblicazione in appendice. Con la probabile mediazione di Scarfoglio, D’Annunzio avviò quindi contatti con quello che all’epoca era il più importante editore meridionale: il barone Ferdinando Bideri. A trattenerlo ancora a Napoli ci fu, in primis, l’arrivo di Barbara Leoni. L’amante lo raggiunse in città perché richiamata dalle sue lettere appassionate. Da grande superstizioso qual’ era, certamente dovette rafforzarsi in lui la convinzione già radicata da tempo che Barbarella gli portasse fortuna. E infatti, appena la Leoni ripartì per Roma nel tardo pomeriggio del 9 ottobre, piombò nella sua malinconia esistenzialista che lo portò immediatamente a scrivere frasi come questa: “Io non so come farò a passare la sera, la notte. Basta che io sia una settimana con te perché la vita mi riesca poi assolutamente intollerabile”. La Napoli in cui era arrivato pochi mesi prima, e nella quale ormai si era pienamente inserito, era la città alla cui intensa vita culturale Benedetto Croce dedicherà anni dopo addirittura un saggio, “La vita letteraria a Napoli tra il 1860 e il 1900”, che resta ancora oggi un pilastro della ricostruzione del dibattito letterario dell’800 italiano. Era la città nella quale ancora viva e sentita era la memoria storica degli studi e della speculazione di Francesco De Sanctis, il padre della critica letteraria nazionale, e non solo. …(Da pag.149)..Quei versi del Vate riscossero subito grande successo, per cui furono affidati a Francesco Paolo Tosti affinché li musicasse. Testo poetico e partitura musicale del grande musicista apparvero l’anno dopo, nel 1904, nelle Edizioni Ricordi con questo titolo: “”A Vucchella”. Arietta di Posillipo per canto e pianoforte”. E fu subito un successo planetario. Cantata da grandissimi interpreti di ogni tempo, tra i primi Enrico Caruso, la canzone è ormai una delle bandiere della melodia napoletana nel mondo e non c’è angolo del globo dove non sia stata eseguita. (Da pag.257)..Ormai i binari della sua vita e quelli della vita del capoluogo campano si separavano. Per quasi due anni avevano camminato paralleli, ma adesso ognuno prendeva la sua direzione. E non si sarebbero incrociati mai più. Quando era arrivato a Napoli, 27 mesi prima, era uno scrittore reietto, abbandonato dal suo editore, su cui nessuno avrebbe puntato un soldo. Per questo si era gettato anima e corpo tra le braccia della sirena Partenope, sempre pronta a offrire a chiunque una seconda possibilità. Era stato lui, con i suoi articoli apparsi sulle colonne de Il Mattino, che da Napoli aveva fatto parlare tutta Italia dei destini della letteratura nazionale, che aveva sentenziato la fine di quel Verismo ormai agonizzante e la nascita di una sensibilità nuova che allora un nome preciso non ce l’aveva ancora. Ma non solo questo D’Annunzio ha dato a Napoli. Le sue liriche “Nel bosco (Capodimonte)”, “Nella Certosa di San Martino” avevano cantato il capoluogo campano con un’intensità che si trova solo nei versi di Salvatore Di Giacomo. Ma Di Giacomo era napoletano, D’Annunzio no. …E mentre il treno cominciava a muoversi, davanti i suoi occhi 27 mesi trascorsi a Napoli dovettero avere solo l’impalpabile ma tenace consistenza di un “sogno rapido e violento”. Sin qui il bel libro di Tobia Iodice che invito a leggere perché ricco di innumerevoli stimolanti vicende letterarie, storiche ed umane da non credere…Ora passo a considerazioni di carattere generale traendo spunto da quanto sopra descritto..e dalle domande poste al conferenziere (anche dallo scrivente..) al termine della sua applaudita relazione. …..Perché le Università e la grande critica letteraria in occasione del centocinquantesimo anniversario dalla nascita non hanno promosso convegni cui far affluire anche studiosi stranieri per una rivisitazione moderna del grande Poeta? Sappiamo che sono iniziate in sordina le celebrazioni e tra queste troviamo la pubblicazione di un interessante libro di Giordano Bruno Guerri dal titolo ” LA MIA VITA CARNALE” (Mondadori), ricco di curiosità sugli ultimi anni di vita del Vate, tra il 1921 e il 1938. Guerri, già autore di “D’ANNUNZIO L’AMANTE GUERRIERO” (Mondadori), è anche il Presidente della importante “FONDAZIONE DEL VITTORIALE DEGLI ITALIANI”, che si occupa della conservazione dell’ultima monumentale dimora e degli archivi. Proprio grazie a questo ruolo Guerri ha avuto accesso a documentazioni inedite attraverso le quali ha realizzato questo nuovo volume che indaga sulle abitudini più intime del grande Scrittore avendo potuto leggere, tra le altre cose, il diario di Aélis Mazoyer, l’amante-governante francese che affiancò D’Annunzio dal 1910 fino alla morte. In quel documento anche interessanti notizie sulla vita di tutti i giorni al Vittoriale, dove abitavano anche la pianista veneziana Luisa Bàccara, la vera padrona di casa ed ex amante del Vate, e talvolta anche Maria Hardouin di Gallese, sua legittima consorte. “Racconto molto della sua vita sessuale”, ha dichiarato Guerri in un’ intervista al Giornale, “ma c’è tanto spazio per il cibo…. Ho ritrovato migliaia di lettere dedicate a “Suor Intingola”, al secolo Albina Bevecello, la cuoca, particolarmente brava a cucinare frittate di cui il Poeta era goloso….. Lui però non la sedusse mai, è l’unica che si è salvata nel personale della casa probabilmente perchè grassottella ovvero troppo preziosa per rischiare di perderla”. Tutto qui per il grande d’Annunzio? Perché, da decenni, preferibilmente si discetta con sterminata pubblicistica solo sulle sue acrobazie e abitudini sessuali e null’altro, mentre con piacere constatiamo che a completamento di questo irrilevante aspetto di vita oggi sono illustrate anche le sue preferenze ghiotte a tavola, in particolar modo per le frittate? Perché le Università e la grande critica letteraria, ripetiamo e ripeteremo all’infinito, in occasione del centocinquantesimo dalla nascita non hanno promosso convegni cui far affluire anche studiosi stranieri per una rivisitazione moderna del grande Poeta? Per fortuna, è giunto in soccorso l’illustre critico letterario Ernesto Ferrero che su “Stampa.it” del 5 settembre 2012 autorevolmente ha scritto: “”L’unico italiano capace di fare una rivoluzione….” secondo Lenin che faceva riferimento all’impresa di Fiume, certamente un giudizio molto lusinghiero per lui, meno per gli Italiani, maestri di trasformismi gattopardeschi ma per nulla portati alle idee forti e radicali; ma il Vate pescarese di rivoluzioni ne ha messe in atto parecchie e adesso che è alle porte il 150° della nascita (12 marzo 1863) bisognerà tornare a fare i conti con lui. Eppure, l’Inimitabile è stato il solo scrittore italiano che si sia imposto in Europa, osannato a Parigi, ammirato da Sarah Bernhardt e da Debussy, da Proust e da tanti altri. Con lui l’Italia tornava improvvisamente a essere degna della sua alta cultura tanto che nel 1897 Gide arrivava a dire che la letteratura italiana, data per morta quanto quella spagnola, tornava ad attrarre l’attenzione di tutta Europa. Facendo della propria vita un’opera d’arte, scrive Ferrero, d’Annunzio aveva confezionato un qualcosa che ancora non si era visto, il poeta guerriero, il letterato d’azione, il dandy al di sopra d’ogni norma e regola, il superuomo capace di stupire con effetti speciali, il maestro d’eleganze inarrivabili, la guida culturale, il sacerdote della bellezza, l’artista supremo, il nume nazionale, addirittura anticipando i tempi lo sdegnato tutore dell’ambiente e dei beni culturali contro gli scempi edilizi””. Definito il “Precursore del Fascismo”, in realtà ne era lontano mentre Mussolini ne temeva il carisma in quanto il Vate ambiva di proporsi agli Italiani come un’alternativa allo stesso Duce. “D’Annunzio è stato presentato come un pazzo, come un istrione, come un nemico della patria, come un seminatore di guerra civile, come un nemico di ogni legge umana e civile”, scriveva con spirito critico Antonio Gramsci nel 1917, mentre in quegli anni davvero difficili molti, da destra e da sinistra, si rivolgevano a Lui per la ricerca di una guida in grado di salvare l’Italia. Proprio nel 1923, Ernest Hemingway auspicava: “In Italia sorgerà una nuova opposizione e sarà guidata da quel rodomonte vecchio e calvo, forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso, che è Gabriele d’Annunzio”. Le cose, sappiamo, andarono però diversamente perché il Vate si era rifiutato di ricevere Gramsci come anche delegazioni di gerarchi fascisti, definiti “demagoghi che credono di aderire alla realtà e non aderiscono se non alla loro camicia sordida”. Si era però benignato di ricevere al Vittoriale l’inviato dei Soviet, Cicerin, e lo stesso Mussolini, mentre, tutto preso dalle sue alte idee, si oppose sempre a “..quel pagliaccio feroce..” di Hitler. Quindi, più che di amplessi ancorchè estetizzanti e lirici, indubbiamente fonte di ispirazione letteraria, si attendevano per questa importane ricorrenza, lo ripetiamo, iniziative più significative che lumeggiassero meglio dal punto di vista letterario e storico colui che fu una vera e propria leggenda vivente; Lui, il vero futurista che non si limitò a scrivere manifesti, ma rischiò la vita in imprese eccezionali come quella con le motosiluranti della “Beffa di Buccari”; il “Volo su Vienna” (con un biposto adattato per lui con la “sedia incendiaria” poggiata direttamente su un serbatoio aggiunto); l’”Impresa fiumana”. Nessuno, come Lui, ha saputo cosa stimolava realmente le folle; nessun’altro come Lui ha saputo suscitare emozioni e farsi mito vivente. Nel 1963, non tutti ricordano, nel centenario della nascita, tutta la stampa nazionale e internazionale si occupò delle manifestazioni organizzate a Pescara al “Teatro Monumento Gabriele D’Annunzio”, inaugurato in brevissimo tempo per l’occasione (oggi cade a pezzi in un totale abbandono e disinteresse). Eccetto Pescara, le celebrazioni passarono sottotono nel resto d’Italia perché la cultura dominante gestita dalla sinistra becera e mistificatrice che collegava con malafede e ingiustamente il Vate al Fascismo non tollerava riti inopportuni; e tutti, “more italico”, abbassarono la testa, salvo rare eccezioni. Ricordiamo comunque che solo dopo il 1963, appunto nel centenario della sua nascita, si è cominciato a valutare d’Annunzio in modo differente dalle sue opinioni politiche, facendo riferimento alla sua produzione letteraria. Un ruolo importante ha svolto, in questa direzione, la rivista “QUADERNI DANNUNZIANI” della “Fondazione Il Vittoriale degli Italiani”, che ha riportato di volta in volta sia gli atti di importanti convegni che si sono tenuti al “Vittoriale”, sia studi e ricerche di autori vari. Nel corso del dibattito con il Prof. Iodice, proprio per il fatto che l’evento si svolgeva in un importante Comando della Benemerita Arma, alcune domande sono state rivolte (ovviamente anche da chi scrive..) ben conoscendo i rapporti che il Vate aveva intrattenuto con storici personaggi..Infatti, noi Veterani, sappiamo, che anche i CARABINIERI devono avere del Comandante d’Annunzio, con orgoglio, fedele culto perché il Vate della Nuova Italia amava tanto l’Arma sì da presenziare, il 12 giugno del 1917, alla celebrazione funebre, nel Duomo di Crauglio, del Capitano dei Carabinieri Reali Vittorio Bellipanni, pronunciando quelle memorabili parole che sono un inno perenne all’amor di Patria e alla religione del dovere del Carabiniere d’Italia di ogni tempo e luogo. “Anche nel volto consunto di questo giovine Capitano il sorriso è rimasto; e c’ illumina tuttavia a traverso il feretro, più potente di questo sole crudo su questa strada nostra scalpitata dai fanti e solcata dai carri. Noi sentiamo che il suo silenzio è tuttavia operoso, come quando in silenzio egli faceva ogni giorno l’offerta della sua vita alla disciplina della guerra, che non era per lui se non il primo comandamento della Patria: condizione essenziale di salute e di vittoria. Quest’assidua dedizione di sé, nella semplicità più verace, nella leale vigilanza, egli c’insegna, affermandola come la regola severa dell’Arma in cui aveva l’onore di servire. E’ l’Arma della fedeltà immobile e dell’abnegazione silenziosa; l’Arma che nel folto della battaglia e di qua dalla battaglia, nella trincea e nella strada, nella città distrutta e nel camminamento sconvolto, nel rischio repentino e nel pericolo durevole, dà ogni giorno eguali prove di valore tanto più gloriosa quanto più avara è la gloria; l’Arma dei Carabinieri del Re incide oggi il nome del capitano Vittorio Bellipanni nelle tavole dei grandi esempii.”; e così, in memoria perpetua di quei giorni, scrisse nel maggio del 1936 (due anni prima di morire) al Generale Riccardo Moizo, Comandante Generale dell’Arma, già valoroso Combattente pilota di guerra: “Ora, con quel medesimo animo, Tu comandi l’intera Arma dei Carabinieri Reali: di quelli che io vidi combattere al mio fianco nella 45ª Divisione, di quelli ch’ebbi compagni irreprensibili com’ebbi compagno Vittorio Bellipanni che cadde sotto i miei occhi a Crauglio nel giugno del 1917”. E come, poi, non ricordare Ernesto Cabruna, asso dell’Aviazione nella grande guerra, il più decorato dei Carabinieri, che per i suoi meriti divenne Ufficiale; così, di lui, d’Annunzio: “E il nostro Eroe – quale altro nome dare a un tale uomo? – continua ad essere il solitario cacciatore, che non conta i suoi avversari, pronto a battersi contro intere squadriglie”. Quale volontario dei Legionari di Fiume, Cabruna lasciò con coraggio l’Arma, sintetizzando in poche parole l’amarezza per la violazione dei Patti di Londra: “Il Tenente dei Carabinieri Ernesto Cabruna, non avendo più fiducia nella Monarchia e nelle istituzioni, rassegna le dimissioni da Ufficiale”. Gabriele d’Annunzio, per tanti alti meriti, volle ancora premiarlo per cui: “Oggi nell’ottavo anniversario della marcia di Ronchi, io conferisco la Medaglia d’Oro al mio Legionario Ernesto Cabruna, già mio glorioso compagno d’ala della III Armata. Egli fu il primo aviatore giunto a Fiume da me occupata. In qualità di mio ufficiale di collegamento rese grandi servigi alla Causa.. Dal Vittoriale, il 12/09/1927, Gabriele d’Annunzio di Montenevoso”. Il Capitano Ernesto Cabruna morì in silenzio, il 09.01.1960, a Rapallo, e dopo tre anni la sua salma venne traslata al Vittoriale degli Italiani perché riposasse, ultimo dei Legionari, accanto al suo Comandante, e questo nel centenario della Sua nascita, in una delle Arche che fanno corona alla tomba del Poeta Soldato.
Alla fine di questa lunga disamina, un rinnovato ringraziamento al Professor Iodice ed al Colonnello Cortellessa, cultore, come forse non molti sanno, oltre che di studi giuridici, anche di Storia Patria..
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