“Sequestri – La trattativa Stato ‘Ndrangheta” – Storie di ‘Ndrangheta… storia di sequestri … con ricordi personali…
Roma, 19 gennaio 2020 – Il noto giornalista Filippo Veltri, ha scritto l’interessante libro “Sequestri – La Trattativa Stato ‘Ndrangheta”, che consiglio di leggere…
Così esordisce l’autore…””Vent’anni dopo la pubblicazione del mio “Sequestri”, all’editore di Città del Sole Edizioni, è venuta la brillante idea di ripubblicare quel mio saggio, che resta l’opera più completa sul fenomeno, e di far capire ai lettori di oggi cosa è stato questo nostro Paese e cosa siano stati soprattutto pezzi di questa Italia in anni bui, tragici, che hanno finito con il segnare in maniera più o meno definitiva proprio l’immagine della regione, al di fuori dei propri confini e aldilà della stessa Italia…””.
Bene, iniziamo a leggere alcune pagine…
(da pag.5)…””Così la ‘Ndrangheta decise di chiudere con i sequestri. Hanno fatto in modo che non si dovevano fare più sequestri. Per il pentito Femia fu un vero e proprio accordo tra le famiglie della Locride: “All’epoca – dice – erano iniziati i traffici con la droga e calcolate che a Mazzaferro gli arrivavano 1000 kg di droga, 2000 kg di droga ogni tre mesi. Lui la pagava un milione e ottocentomila lire. La dava a tutte le famiglie a 10 milioni al chilo”. Con i sequestrati in Aspromonte e i controlli della Polizia non si poteva trafficare con la droga. Ecco perché ci fu un summit in cui si decise di chiudere con la stagione dei sequestri. Una strategia voluta dai boss Peppe Nirta, Vincenzo Mazzaferro e Pepè Cataldo, tutti morti ammazzati da lì a qualche anno, tranne Cataldo, e tutti in periodi in cui le loro famiglie non erano coinvolte in faide: “Di smettere con i sequestri – fa mettere a verbale Femia – non gli è stato bene a qualcuno… a personaggi che lavoravano con i servizi, non lo so a chi”….””
(da pag. 8)…””Dei 694 sequestri avvenuti per mano della criminalità in Italia di cui si calcola un giro di affari di 800 miliardi di lire, più della metà finirono nelle mani della ‘ndrangheta… La ‘ndrangheta, a differenza di Cosa Nostra, decise invece di trasformare il suo territorio, la Calabria, parti importanti della provincia di Reggio ma anche di Vibo Valentia, nel luogo di custodia degli ostaggi, anche di quelli sequestrati in altre regioni, di coinvolgere le comunità locali nella gestione materiale delle operazioni e di trasformare così il sequestro in una specie di vantaggio economico per quelle stesse comunità. Il caso Getty (che ricordo bene perché operavo nella Compagnia Roma Trastevere ed il sequestro del ragazzo sedicenne avvenne, alle tre del mattino del 10 luglio 1973, tra Piazza Farnese e Trastevere n.d.a.), fu un caso che per cinque mesi rimase sulle prime pagine di tutti i giornali italiani e culminò in un gesto macabro destinato a rimanere per molto tempo nell’immaginario comune: i rapitori tagliarono l’orecchio destro dell’ostaggio – che aveva 16 anni – e lo inviarono a un giornale per convincere la famiglia a pagare il riscatto (3 milioni di dollari, che vennero pagati). Il caso più eclatante fu quando il 18 gennaio 1988 viene rapito a Pavia Cesare Casella con una richiesta di 5 miliardi di lire. Dopo più di un anno, nel giugno del 1989, la madre, Angela Casella, decide di scendere in Calabria per riprendersi suo figlio: nella piazza centrale di Locri inizia una protesta con striscioni, si sposta, va a San Luca per cercare di farsi aiutare dalle persone del posto dalle quali riceve solidarietà. Si dirige con delle catene al collo verso Ciminà, conferisce con la Commissione Parlamentare Antimafia, di nuovo a Locri, e prega di fronte al “Crocifisso dei sequestrati” incontrato a Zervò di Santa Cristina d’Aspromonte, e fa visita al Santuario della Madonna di Polsi. Finalmente, a dicembre del 1989, in uno scontro a fuoco tra i Carabinieri e Giuseppe Strangio, questi viene catturato e fa un appello ai sequestratori. A fine dicembre Cesare Casella viene rilasciato””.
(da pag.65)…””L’anonima-sevizie – L’anonima calabrese di norma non uccide gli ostaggi e mantiene la parola con la famiglia del rapito (sono tre sole le eccezioni di cui si ha notizia: il sovrapprezzo chiesto a Bruno Piattelli, re della moda italiana, per la liberazione della figlia Barbara, e poi quello richiesto alla famiglia Casella dopo l’accordo sul riscatto di 1 miliardo pagato l’antivigilia di Ferragosto del 1988, in Aspromonte, e quello suppletivo preteso dai rapitori di Carlo Celadon, dopo i 5 miliardi pagati sull’unghia dal padre); ciò non significa che i carcerieri trattino con umanità i rapiti. Tutt’altro. Pantaloni Sergi, ne “La “Santa” violenta”,racconta agghiaccianti testimonianze di diversi sequestrati. Eccone alcune. La vicenda di Carlo Celadon, in questo senso è una eloquente testimonianza: “… ero in una buca in una grotta. Stavo disteso, potevo muovermi appena, avevo tre catene: al collo, a un piede, al polso. Una volta venne un diluvio e la grotta si allagò. Stetti nell’acqua per alcuni giorni. Per difendermi da topi e bisce, mi avevano dato un bastone”. L’inferno di Celadon, e quello della sua famiglia, è stato il più lungo della storia dei sequestri… Il giovane, per più di due anni, è stato costretto in prigionia tra tormenti, angherie, soprusi, violenze, vessazioni, ansie e paure. E la conferma di una inumana situazione di abbrutimento si è avuta, il 26 gennaio 1991, dalle parole dell’odontotecnico Domenico Paola, appena tornato dal buio dell’Aspromonte: “per 275 giorni ho dovuto difendermi dei topi”.
“È stato un inferno. Un inferno dal quale disperavo di uscire vivo”, ripete ancora oggi il dottor De Sandro ai cronisti che si recano a trovarlo nella sua farmacia in piazza a Bovalino. Quelli passati in catene, per De Sandro, sono stati infatti sei mesi d’orrore: “erano delle belve, mi hanno seviziato. Ero legato come un cane con una catena al collo, mi tenevano con i piedi scalzi perché non tentassi fughe, stavo nascosto in una buca scavata nella terra con uno dei rapitori incappucciato che ogni due giorni mi bastonava”. De Sandro porta ancora i segni di questa barbara prigionia, tra cui una cicatrice all’orecchio destro che i rapitori gli stavano per mozzare””.
(da pag.83)… “”In nome della legge… Solo nella nona e decima legislatura, e dunque alla fine degli anni ’80, il dibattito parlamentare e governativo sui sequestri ha fatto segnare una crescita d’interesse. Tutto sfociò nel Decreto legge 15 gennaio 1991…18 articoli furono sintetizzati in un’unica parola d’ordine: il sequestro dei beni alla persona rapita e ai suoi congiunti. Una procedura rapidissima, se si pensa che il testo è dovuto passare al vaglio non solo delle due Assemblee ma anche di molte Commissioni nei due rami del Parlamento. Ma l’emergenza era in quelle settimane al suo punto forse più alto e le pressioni dell’opinione pubblica molto forti e l’iter parlamentare del provvedimento seguì le indicazioni di un’opinione pubblica che chiedeva risposte. Alla luce del poi, si può ben dire che quello strumento legislativo – accoppiato a un mutamento di rotta nell’azione delle cosche calabresi – ha portato alla caduta verticale del fenomeno dei sequestri in Calabria, almeno nella vecchia idea concretizzatasi negli anni 80. Non c’è dubbio che troppo lunga è stata la paralisi delle istituzioni democratiche di fronte al dilagare dei sequestri e alla prepotenza dell’anonima calabrese. Troppe sottovalutazioni, troppe complicità hanno portato alla crescita delle cosche dell’Aspromonte lungo l’arco di un ventennio e ancora oggi troppo forte è il silenzio che è calato su una storia di criminalità atroce…””.
(da pag.103)…””Mio padre, sequestratore. Si consuma un dramma familiare nell’aula del Tribunale di Vibo Valentia davanti al Presidente Giuseppe Vitale, ad avvocati, giornalisti. Per la prima volta, nella tragica storia dei sequestri di persona, una figlia accusa il padre. Riconosce, tra le lacrime, la voce del genitore in alcune telefonate fatte ai familiari dopo il rapimento. “È lui, dice, è lui non ci sono dubbi…”. Mariangela Vavalá, 15 anni e un’infanzia difficile dopo l’abbandono della madre, inchioda così il proprio genitore, Carlo Vavalà, pregiudicato processato e poi condannato per avere fatto parte della banda che a Briatico (Vibo Valentia), il 18 aprile del 1991, sequestrò il dentista Giancarlo Conocchiella. Nei colloqui telefonici si chiedeva il pagamento di un riscatto per il rilascio del professionista. Il riconoscimento è avvenuto durante l’udienza del processo contro Vavalà. La ragazza, seppure tormentata da un dolore che non è riuscita a mascherare, ha riconosciuto la voce del padre nelle registrazioni di cinque delle 11 telefonate fatte ai familiari di Conocchiella…””. Sin qui il libro.
Ora alcuni ricordi professionali… In quegli anni ero in Calabria, dove sono rimasto per un quadriennio, con giurisdizione anche sull’area di Vibo Valentia… Il 6 gennaio 1997 fu arrestato a Cessaniti, Antonio Pititto, indiziato di essere uno dei sequestratori di Giancarlo Conocchiella, il dentista di Briatico citato nel libro, rapito il 18 aprile 1991 (ebbi modo di conoscere la moglie, nell’estate 1993, all’atto del mio arrivo in Calabria, proprio a Briatico…), ucciso dopo pochi mesi e i cui resti furono trovati, nel dicembre 1996, in un pozzo asciutto nelle campagne di Cessaniti. Su Pititto, come su altri delinquenti della zona, erano state avviate indagini poco dopo il sequestro. Due dei rapitori erano stati uccisi e uno risultava scomparso. Un altro, Carlo Vavalà, venne arrestato e condannato a 26 anni. La sua voce, registrata in una intercettazione telefonica, come sopra scritto, era stata riconosciuta in aula dalla figlia Mariangela, che successivamente lo avrebbe convinto a collaborare con gli inquirenti. Secondo le prime dichiarazioni di Vavalà, sembra che il medico sarebbe stato rapito e ucciso perché aveva richiesto a due latitanti mafiosi della provincia di Reggio Calabria, che erano in cura da lui, una situazione di difesa… o altro… nei confronti di Nicola Tripodi, che sembra gli avesse fatto richieste estorsive. Su tutta questa triste vicenda, ha sempre aleggiato l’ombra del clan Mancuso di Limbadi…
Concludo, plaudendo all’autore del bel libro, il grande giornalista di Catanzaro Filippo Veltri, che ha iniziato la carriera giornalistica nel 1972 al «Giornale di Calabria» diretto da Piero Ardenti ed ha poi fondato il quindicinale «QuestaCalabria», rimasto nelle edicole fino al 1978. Ha lavorato a «l’Unità» come caposervizio ed inviato. Ha collaborato con «Repubblica» e «Il Sole 24 ore». Oggi è editorialista e commentatore del «Quotidiano del Sud» e della rete televisiva TEN. È autore di numerosi saggi sulle condizioni economiche e sociali della Calabria. Ben noto il suo impegno professionale e civile contro le mafie. È membro del Comitato d’onore del Laboratorio Losardo a Cetraro. Nel 2015 ha vinto il premio “Stelle del Sud” e nel 2016 il “Premio Siani”. Ma la cosa più importante, per me, è quella di averlo avuto grande Amico, anche per la mia Famiglia, unitamente alla cara moglie, Rita Commisso, illustre Docente, già Deputato al Parlamento… Un’Amicizia che ancora oggi continua…
Sull’argomento ‘Ndrangheta, per chi fosse interessato, altri recenti miei articoli… Finalmente la pax mafiosa… con miei ricordi professionali …( 3^ e ultima parte)