Storia dell’antindrangheta

Il nuovo libro di Danilo Chirico

Roma, 28 luglio 2021 – Scrive Mimmo Nunnari, giornalista e docente universitario, il 22/06/2021: “Storia dell’antindrangheta” di Danilo Chirico, è il libro che non c’era, e ora c’è.

Chirico è un giornalista si può dire ormai di lungo corso, che però mantiene la faccia e l’entusiasmo dell’adolescente.

Oggi, è uno dei maggiori studiosi del fenomeno mafioso, soprattutto è esperto dell’altra faccia della mafia, quella più importante: la lotta alla mafia.

Uno che studia i fenomeni e tutto quello che c’è intorno, di sociale potremmo dire.

È il contrario di chi scrive di mafia per costruirsi fragili monumenti di antimafiosità che servono a illuminarsi di luce mediatica.

Mancava questo libro, che ha la prefazione di Enzo Ciconte, autore per Laterza nel 1992 di “Ndrangheta dall’Unità ad oggi”, il primo libro sulla mafia calabrese, che poi, in ritardo, dopo aver tenuto a lungo gli occhi chiusi, si è scoperto che è la più potente e ricca del mondo.

Analogamente a Ciconte che ha scritto un saggio colmando un vuoto, Chirico il vuoto lo colma sull’altro versante: l’Ndrangheta dall’Unità ad oggi

La storia del movimento antindrangheta nel libro di Chirico comincia con le dure battaglie per il lavoro, a volte macchiate del sangue di innocenti: ribellioni contadine, lotte per un giusto salario, denunce dei capibastone da parte di singoli, di movimenti e di forze politiche; prima che tutto si annacquasse in Calabria, formando quella melassa tossica che non consente più di distinguere tra una forza politica e l’altra.

Iniziamo a leggere alcune parti dell’interessante libro.

– da pag.21.“”Una storia di guardie e ladri. Succede tutto in pochi anni. Nel 1869 vengono annullate le elezioni amministrative di Reggio Calabria: erano state alterate da una “setta di accoltellatori”. Del 1890 invece è la sentenza del Tribunale reggino che per la prima volta riconosce l’esistenza della “picciotteria” indicando la presenza di due livelli all’interno dell’associazione. Sono gli anni dei primi maxiprocessi: nel 1892 a Palmi i rinviati a giudizio sono 219 (ci sono anche delle donne: dal 1880 al 1906 saranno condannate in dieci, prosciolte in otto), nel 1900 gli imputati sono oltre 500. Nel 1897 a Seminara, nel Reggino, viene scoperto il codice delle norme che regola l’ingresso nella società criminale e garantisce assistenza “agli affiliati arrestati”. In un analogo documento scoperto a Catanzaro nel1902 si fa invece riferimento a tre gradi gerarchici (picciotto, camorrista, capo contabile) e si individuano anche i casi di esclusione: gli omosessuali, i “mariti traditi” e i Carabinieri. A tutto questo corrisponde un cambio di linguaggio e si comincia ad usare il termine ‘ndranghiti. Non c’è invece una eco nazionale di quanto accade in Calabria, né si registra un significativo moto di ribellione popolare. È soltanto nel secondo dopoguerra, infatti, che il fenomeno assume una rilevanza nazionale. Grazie a tre eventi collegati tra loro. Il 10 agosto 1955 i familiari del Sottosegretario all’Agricoltura Antonio Capua subiscono un tentativo di sequestro. La risposta dello Stato è immediata: scatta l’operazione Marzano. Dal 28 agosto al 15 settembre il neoquestore di Reggio Carmelo Marzano, sul modello adottato in Sicilia dal Prefetto di Ferro Cesare Mori, “assedia” la provincia: gli arresti sono 138, i fermi 281, i sequestri, le perquisizioni, gli interrogatori centinaia. La stagione di Marzano dura poco, viene presto trasferito (diverrà Questore di Roma nel 1958 n.d.a.), ma quei fatti colpiscono lo scrittore Corrado Alvaro che il 17 settembre 1955 sulle pagine del «Corriere della Sera» pubblica il saggio “La fibbia”.
La battaglia per il lavoro. Mentre gli scrittori cominciano a raccontare la ‘ndrangheta, non esiste ancora una battaglia antindgrangheta consapevole da parte dei calabresi. Che si rendono però protagonisti di una dura e straordinaria battaglia per i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. È una storia eroica e dolorosa – e per lo più sconosciuta – che ha origine sul finire del 1944. Le battaglie contro il latifondo e le occupazioni delle terre sono il primo terreno di scontro: le mobilitazioni sono imponenti, decine di migliaia di lavoratori a protestare dal nord al sud della Calabria. La legge che porta il nome del Ministro calabrese Fausto Gullo, nel 1944, dispone l’assegnazione di alcuni latifondi ai contadini. Un provvedimento ostacolato dai proprietari terrieri che considerano i contadini alla stregua di usurpatori. La situazione è tesa, gli scontri frequenti. I più violenti sono a Calabricata (oggi Sellia Marina), in provincia di Catanzaro, nel 1946 sui terreni del latifondista Pietro Mazza. Tra i manifestanti anche la trentunenne Giuditta Levato, uccisa al settimo mese di gravidanza del suo terzo figlio da un colpo di fucile. Tutta la Regione diventa un terreno di lotte che ha la sua acme nel 1949 quando migliaia di cittadini si schierano accanto ai 15.000 contadini calabresi. In ottobre l’ondata delle occupazioni sembra irrefrenabile, così i proprietari terrieri chiedono l’intervento del Governo: il Ministro dell’Interno Mario Scelba invia la celere. La tensione si trasforma prima in scontro violento, poi in tragedia. Il 29 ottobre per fronteggiare i manifestanti, la polizia spara ad altezza d’uomo e uccide tre lavoratori. Una giornata drammatica che passa alla storia come la strage di Melissa.””

– da pag.123. “”Progetti stragisti. Il 1994 è un anno in cui la Calabria finisce di continuo sui giornali e in tv. Il 18 gennaio, dopo un inseguimento sull’Autostrada Salerno-Reggio Calabria nei pressi di Scilla vengono assassinati i Carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Poche settimane prima un’altra pattuglia ha subito un attentato a Reggio: solo per un colpo di fortuna restano illesi Silvio Ricciardo e Vincenzo Pasqua. La tensione in città è altissima. Emergono anche i piani omicidi nei confronti del Procuratore Aggiunto della Dda Salvatore Boemi. La ‘ndrangheta ha alzato il tiro e sembra aver abbracciato lo scontro frontale con lo Stato. Commenta oggi il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri: «La‘ndrangheta è sempre stata contraria alla strategia stragista di Cosa nostra. E ha resistito finché ha potuto – spiega – Cosa nostra ha chiesto più di una volta l’aiuto, e d’altra parte i rapporti tra ‘ndrangheta e mafia siciliana sono di lunga data e confermati, ad esempio, dai rapporti degli Iamonte o dei De Stefano o dei Piromalli con i siciliani. O come emerge per esempio nelle indagini per l’omicidio Scopelliti ( Antonino Scopelliti, Magistrato coraggioso nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra n.d.a.) o sull’uso della sigla Falange armata, e come dicono ormai tanti collaboratori di giustizia». Ma aggiunge: «A un certo punto la ‘ndrangheta non ha potuto dire di no. Però quando ha accettato lo ha fatto con il malcontento di una parte delle cosche e pentendosene subito dopo».
Due giorni dopo il Vescovo Vittorio Mondello celebra i funerali in una Cattedrale stracolma di persone. Quello stesso giorno i sindacati proclamano lo sciopero generale. Michele Santoro manda in onda “Il rosso e il nero” da Reggio. Durante la trasmissione interviene anche un carabiniere, Salvatore Serra, pieno di rabbia: «Lo Stato non vuole fare niente per noi. Scegliamo di fare i Carabinieri perché non ci sono altre possibilità… poi lo facciamo con passione e coscienza, ma lo Stato resterà sempre così se la popolazione non si ribellerà». Parole pesanti, se è vero che alcuni giorni dopo – il primo febbraio – Salvatore Serra e il collega Bartolomeo Musicò subiscono anche loro un agguato mentre sono in servizio lungo la statale 106. Restano gravemente feriti. Tre attentati in pochi mesi contro i Carabinieri: uno scenario che diventa ancora più inquietante quando si scopre che le armi usate per i tre agguati sono le stesse. «Non può essere un caso». Osserva Bombardieri. Santoro torna a Reggio con il suo programma, la città invece sembra disorientata, non trova la forza di reagire e viene presto dimenticata.””
“”La lente dei maxiprocessi. Cambia la storia della ‘ndrangheta. E dell’antindrangheta. Il 18 luglio 1995 nella sede reggina della Dia si svolge la conferenza stampa dei Magistrati della Dda reggina guidata da Salvatore Boemi che hanno appena concluso l’ “Operazione Olimpia” che ricostruisce più di venti anni di storia della‘ndrangheta (operazione magistralmente condotta e diretta dal Colonnello dei Carabinieri Angiolo Pellegrini, mio collega di corso, in servizio alla DIA (https://www.attualita.it/notizie/tematiche-etico-sociali/noi-uomini-falcone-5834/) già collaboratore di grande fiducia dei Giudici Falcone e Borsellino, come documentato n.d.a.). La richiesta iniziale è di 5226 pagine che, dopo le integrazioni, diventa di 6615pagine. È il processo più grande di sempre in Italia – supera anche il maxiprocesso a Cosa nostra e Spartacus contro la camorra per numero di indagati (563), arrestati (317), le cosche coinvolte (187), gli omicidi ricostruiti (oltre 100), per ergastoli inflitti (62) e per l’arco temporale su cui vengono contestati i reati. Ricostruisce un pezzo importantissimo della storia criminale della città, che vuol dire anche del potere. Quello vero. “Olimpia” tenta un passo in più e teorizza anche l’esistenza di una sorta di cupola della ‘ndrangheta, un vertice di mafiosi, massoni e riservati: lo chiamano Cosa nuova. L’ipotesi non regge al vaglio della Cassazione, passo dopo passo (nonostante gli altri filoni di Olimpia – che si allargano anche alla politica, per esempio al Deputato di Forza Italia Amadeo Matacena jr), la ‘ndrangheta torna incredibilmente a essere considerata un’organizzazione oscura, misteriosa e impenetrabile. Un passo indietro enorme, complice il sistema dei media, che favorisce l’ascesa indisturbata dei clan calabresi in tutto il mondo e la conquista della leadership nel traffico internazionale di cocaina. Una divaricazione tra realtà e rappresentazione della realtà non ancora colmata. Un altro importante processo era stato incardinato qualche anno prima a Palmi.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, il Procuratore Agostino Cordova durante una classica indagine antimafia tocca i fili incandescenti che legano politici, massoni e ‘ndranghetisti. L’inchiesta fa esplodere un caso nazionale – numerose sono le perquisizioni in tutta Italia – ma ha un esito giudiziario sfortunato e, probabilmente, costa a Cordova la nomina a Superprocuratore nazionale antimafia. Dopo oltre 25 anni di lavoro investigativo della procura di Palmi torna di attualità perché usato per l’inchiesta della Commissione parlamentare Antimafia della XVII legislatura (Presidente Rosy Bindi) che si è occupata del rapporto tra organizzazioni criminali e massoneria in Calabria e Sicilia. La scommessa investigativa degli anni successivi – sotto la guida del Procuratore Cafiero De Raho – è invece l’indagine Gotha che – unificando le inchieste Mamma Santissima, Reghion, Fata Morgana e Sistema Reggio – punta a definire la presenza di una cupola nella ‘ndrangheta alla quale ci sarebbe una «componente riservata», della massoneria deviata, dell’imprenditoria, della politica: cioè dei «soggetti “cerniera” che interagiscono tra l’ambito “visibile” e quello “occulto”dell’organizzazione criminale». Tra le persone coinvolte, Giorgio De Stefano, avvocato ed ex consigliere comunale della Dc degli anni Ottanta e uomo dell’omonimo clan, e Paolo Romeo, avvocato e politico Psdi, già condannato nel processo Olimpia.
L’ultimo maxiprocesso alla ‘ndrangheta porta la firma del Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri: si chiama Rinascita Scott e vede coinvolte quasi cinquecento persone (sono state 334 le ordinanze di custodia cautelare, ben 203 gli arresti annullati – tra le polemiche – da Gip Tribunale della libertà e Cassazione prima dell’inizio del processo) tra politici, mafiosi, imprenditori, avvocati, Carabinieri e poliziotti infedeli, impiegati del Tribunale di Vibo che, secondo la Dda di Catanzaro, erano al servizio della cosca Mancuso di Limbadi. Per permettere di celebrare il processo in Calabria, viene realizzata in tempi record una nuova aula bunker allestita nel polo industriale di Lamezia Terme: una tempestiva risposta delle istituzioni centrali alla richiesta della Procura. La figura carismatica di Gratteri, la sua prolifica attività pubblicistica (insieme allo studioso Antonio Nicaso) capace di far uscire la ‘ndrangheta dal buio, le sue frequenti presenze televisive e il lavoro nelle scuole contribuiscono a inaugurare una nuova stagione per l’antindrangheta.””

– pag.151. “”Le donne cambieranno la Calabria. O no? Il 2008 è anche l’anno in cui trovano spazio sui media le storie di tre sindache definite antindrangheta: Maria Carmela Lanzetta, Carolina Girasole ed Elisabetta Tripodi sono tre donne calabresi che, dopo essere state al nord per studiare, rientrano in Calabria e si mettono in gioco. La prima a proporsi sulla scena pubblica è Maria Carmela Lanzetta che diventa Sindaca di Monasterace nel 2006. La prima consiliatura trascorre liscia, ma quando nel 2011 viene riconfermata finisce subito nel mirino della ‘ndrangheta. Le bruciano la farmacia di famiglia: è uno shock ma il paese le si stringe attorno. Non resta un episodio isolato. Un anno più tardi sparano alla sua auto parcheggiata sotto casa. E Lanzetta molla. Le sue dimissioni fanno rumore: arriva la solidarietà dei sindaci della Locride e anche il Segretario nazionale del Pd Pier Luigi Bersani si spende per convincerla a restare al suo posto. Si dimette nuovamente nel luglio 2013 quando, in giunta, non viene condivisa la costituzione di parte civile in un processo. Lanzetta è ormai un personaggio noto, diventa dirigente nazionale del Pd e, nel febbraio 2014, viene nominata a sorpresa ministra degli Affari regionali. L’esperienza dura poco meno di un anno. Al primo rimpasto, nel gennaio 2015, viene sostituita. Il Presidente della regione Calabria ne approfitta e la chiama in giunta. Lei accetta ma si dimette dopo appena due giorni in polemica con altre nomine. La sua stella lentamente si spegne. La seconda sindaca ad affacciarsi sulla scena è una biologa di Isola Capo Rizzuto, Carolina Girasole. Diventa sindaca dopo uno scioglimento per mafia con uno slogan che è tutto un programma: «è qui che vogliamo vivere». E vivere bene. Riattiva i concorsi per le assunzioni in comune e le procedure per riavere nel patrimonio comunale diversi beni utilizzati illegalmente dai clan. Tra questi, 100 ettari di terreno confiscati agli Arena ma che continuano ad essere nella disponibilità della cosca. Le conseguenze sono molto pesanti. La reazione è violenta. Racconta Girasole: «Abbiamo capito che la criminalità ha un grande potere economico ma ha bisogno del consenso popolare e il consenso lo ottiene tenendo soggiogato un territorio – spiega – gli enti locali sono lo strumento attraverso cui si garantiscono favori». Carolina Girasole tenta la riconferma nel 2013 ma resta vittima di uno scontro interno al Pd e finisce all’opposizione: il giorno dopo danno alle fiamme la casa di famiglia del marito «per suggellare definitivamente il segnale che alcuni argomenti a Isola Capo Rizzuto non devono essere toccati», commenta. «Ma la nostra resta un’esperienza positiva – conclude – è una luce accesa per la Calabria». Non sa ancora, quando pronuncia queste parole, quello che l’aspetta. Qualche mese dopo, il 3 dicembre 2013,viene spiccato un mandato d’arresto (sia pure domiciliare) nei suoi confronti con l’infamante accusa di essere collusa con i clan. Nel giro di poche ore da simbolo antimafia diventa un mostro da evitare: «L’accusa era terribile, insopportabile, inaccettabile perché tutta la mia vita dimostrava, senza ombra di dubbio, che le accuse non potevano essere vere». La vicenda giudiziaria dura sette anni: «Mi sembrava di vivere un incubo, troppe contraddizioni, troppi errori, troppe incongruenze. Non riuscivo a darmi una spiegazione ragionevole per quello che stava accadendo». Finisce con un’assoluzione con formula piena. Ma la sua storia dimostra che la strategia della delegittimazione operata dalle mafie può fare davvero male. Nell’aprile 2021,dopo 7anni e mezzo, la Cassazione valuta come «inammissibile» il ricorso della Dda di Catanzaro: la Sindaca è giudicata innocente con sentenza definitiva.
Elisabetta Tripodi viene eletta sindaca di Rosarno, a capo di una coalizione di centrosinistra, il 13 dicembre 2010, simbolo di una ripresa di una strada interrotta, quella del sindaco Giuseppe Lavorato. Ad appena dieci mesi dal suo insediamento è già costretta a vivere sotto scorta. Il 26 agosto 2011 riceve una lettera intimidatoria. A spedirla dal carcere di Opera – ma su carta intestata del comune di Rosarno – è il boss Rocco Pesce. È una missiva che minaccia e blandisce,contesta alcune decisioni e tenta di delegittimare la sindaca. Pesce esprime rammarico per la costituzione di parte civile del Comune nei processi ma soprattutto si lascia andare ad insinuazione ed allusioni. Elisabetta Tripodi rende pubblica la lettera e la porta in consiglio comunale. Un gesto che fa crescere la tensione in paese ma che è parte di una precisa scelta politica: la sua esperienza amministrativa è l’occasione per raccontare al resto del Paese una nuova Rosarno.Le tre sindache non hanno le stesse caratteristiche, non ottengono gli stessi risultati amministrativi e non creano un movimento. Eppure, le loro storie politiche vengono raccontate parallelamente ela loro azione forse anche indipendentemente dalle loro intenzioni diventa portatrice di un desiderio di cambiamento e di un sentimento di possibilità che coinvolge tante e tanti.””

Sin qui l’interessante libro.

Concludiamo con valutazioni integrazioni e considerazioni.

Ora, per i miei 25 lettori, attingendo a ricordi personali di Terra di Calabria, essendo stato Comandante Provinciale di Catanzaro con la Provincia madre non ancora tripartita con Vibo Valentia e Crotone proprio nei tragici anni citati, un doveroso cenno al grande Comandante Generale dell’Arma, Luigi Federici, che sempre fece sentire la Sua vicinanza a tutti noi in servizio in quella difficile Regione, con frequenti telefonate sino anche ai minori livelli operativi, ma soprattutto con la Sua forte e rassicurante presenza!

Come il 18 gennaio 1994, quando, come descritto nel libro in esame, lungo l’ autostrada Salerno-Reggio Calabria, nei pressi dello svincolo di Scilla, vennero uccisi, in un vile agguato gli Appuntati Scelti Antonino Fava e Vincenzo Garofalo; e così anche il 03 febbraio 1994, quando Reggio Calabria si svegliò con un nuovo attentato nella notte, ai danni di due giovani Carabinieri, subito ricoverati in ospedale; un atto della strategia della ‘ Ndrangheta, volta a intimidire lo Stato. E lo Stato rispose con l’invio di 1350 militari di leva (Operazione Riace), e con l’invio di ulteriori contingenti di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza.

Ma perché l’attacco proprio ai Carabinieri? “Perché sono un simbolo dello Stato… perché colpendo loro, colpiscono l’immaginario collettivo” affermò il Magistrato Vincenzo Pedone, Presidente del Tribunale di Locri, che fu oggetto di attentato, “Ma sia certo”, affermò il Comandante Generale, Luigi Federici, che giunse nell’immediatezza degli eventi “gli uomini in divisa non arretreranno di un solo passo”.

Nella circostanza, voglio ricordare, che nella Cerimonia di cessione delle Sue alte funzioni, in Roma, il 20 febbraio 1997, il Generale Federici volle donare la sua sciabola alla Famiglia del Maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso in Sicilia dalla Mafia.

Si trattò di un gesto di altissima valenza emblematica e simbolica, che non credo abbia avuto precedenti e seguito nelle nostre Forze Armate.

E oggi? Che cos’è la ‘ndrangheta nel 2021?

La ‘ndrangheta oggi è la più forte delle mafie. Ed è in corso un ennesimo mutamento.

La pandemia, come dice Gratteri, è stata una eccezionale sponda, la ‘ndrangheta ha messo in campo moltissimi soldi per l’economia, per l’imprenditoria, per riciclare denaro. Era da aspettarselo.

Da Calabrese di origine, concludo con la mia visione della “Calabresità”, forse da molti non gradita.

Nella società calabrese prevalgono comportamenti che ai più possono apparire strani, avulsi dal contesto sociale comune, “differenti”, ma certamente riferibili a sentimenti di paura e pudore primordiale; sentimenti che fanno parte di un mondo lontano, eppure oltremodo vicino della difficile e amara Terra di Calabria.

Terra, oggi, di giovani preparati e di grande levatura culturale, molto spesso purtroppo proiettati fuori Regione per studio e lavoro.

Essi, certamente, costituiscono l’unica vera speranza di un futuro migliore per questa Regione, che origina dalla Magna Grecia, faro di civiltà e cultura per tutto l’occidente europeo.

Per chi volesse approfondire il gran tema Calabria propongo due recenti libri da me recensiti su questa testata (di cui è Direttore il giornalista Salvatore Veltri) scritti dal grande Prof. Enzo Ciconte (https://www.attualita.it/notizie/tematiche-etico-sociali/la-grande-mattanza-storia-della-guerra-al-brigantaggio-di-enzo-ciconte-45802/ )  e

(https://www.attualita.it/notizie/tematiche-etico-sociali/la-grande-mattanza-storia-della-guerra-al-brigantaggio-di-enzo-ciconte-45802/)

 

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