Roma, 9 agosto 2018 – Quante volte abbiamo sentito parlare dei militari in missione di pace? E quante volte ci siamo chiesti quante e quali sofferenze ci sono dietro ad ognuno di loro che lascia il suo Paese d’origine per andare a garantire e tutelare la vita dei più deboli nelle parti del mondo che sono più a rischio?
Confesso: io non mi ero mai fatto alcuna di queste domande. Per me sentire di questi soldati in missione di pace, era solo una notizia del telegiornale. Punto. Ma un giorno ho avuto la fortuna di conoscere uno di loro, del quale non posso rivelare il nome né la nazionalità e mi sono interessato alla sua storia.
Una storia fatta di senso dell’onore, di morte, di sofferenza personale e dei familiari che aveva lasciato a casa (i genitori, la moglie i figli, i fratelli), ma anche di grande soddisfazione per aver compiuto il proprio dovere come meglio non avrebbe potuto. Non a caso è stato insignito di alte onorificenze dallo stato che ha servito, appuntategli sul petto dallo stesso Presidente della Repubblica.
“È una storia come tante – dice lui con l’umiltà che lo contraddistingue – niente di speciale, ho fatto solo il mio dovere”. È vero, se scegli di fare il militare andare a rischiare la vita nelle zone più calde del mondo può far parte del tuo dovere. Ma un conto è dirlo o scriverlo, un conto è farlo concretamente. E lui lo ha fatto e tra i luoghi pericolosi in cui lo hanno mandato, c’è stato anche quell’Afghanistan nel quale hanno trovato la morte cinque suoi commilitoni. Cinque amici, che ha visto cadere vicino a lui. Una sorte tragica che poteva toccare anche a lui e della quale, in quel momento, era consapevole, ma non aveva paura. “Forse avevano più paura i miei a casa che io là” dice, ma senza spavalderia, bensì con la consapevolezza di chi sa quello che sta facendo.
“Loro quando sentivano al telegiornale che era morto qualche soldato in Afghanistan pensavano subito a me – continua – mia moglie piangeva, la notte non dormiva, così come i miei genitori, mio fratello e mia sorella. D’altronde tutti quelli impegnati in missione di pace, eravamo nel mirino dei talebani e giravamo sempre con la pistola. Anche per andare al bagno. Perché in ogni momento ti potevano sparare. Noi eravamo lì per tutelare la popolazione civile e facevamo di tutto per evitare che le succedesse qualcosa. Ma per loro eravamo solo invasori”.
E dagli occhi dei suoi familiari capisci quanto hanno sofferto per questo loro figlio, marito, fratello, quando era in giro per il mondo impegnato in missione di pace. E ogni volta che tornava, quando ripartiva, non sapevano mai se lo avrebbero rivisto. Ed era terribile il pensiero e quel saluto diventava un colpo al cuore, forte, violento. Perché la realtà non è uno scherzo, in questi casi. Può essere buona, come è stata la sua, ma anche terribile. Come è stata quella dei suoi commilitoni rimasti uccisi in quel Paese lontano.
“Ma possibile che non avevi mai paura?“ gli chiedo e lui risponde: “Certo, come no, ma stavo facendo il mio dovere. Potevamo difenderci, ovviamente, ma il pericolo era sempre dietro l’angolo e lo vivevamo come ci avevano addestrati a viverlo. Da professionisti”. Lo ascolti e ti viene la pelle d’oca. E non avresti mai voluto essere al posto suo.
Sette mesi vissuti così, tra le montagne afghane e quando stava a Kabul, ci dice, rischiava come se ti trovassi nel villaggio più sperduto del Paese. Forse anche di più. Sette mesi, di ansie, tensioni, nervi saldi, coraggio e voglia di evitare che a quelle donne, quei vecchi e quei bambini che vivevano della sua protezione e di quella dei suoi commilitoni, accadesse qualcosa. Sette mesi di orrori visti con i propri occhi e non raccontati mai a nessuno, neanche a noi, perché forse così si dimenticano prima e meglio. Anche se certe cose alla fine non si dimenticano mai.
Sette mesi che, sommati a tutti gli altri vissuti in altre zone calde del pianeta, lo hanno portato a diventare uno dei militari più decorati della sua nazione. Perché se uno è fedele ai propri ideali, poi vive con passione e con tutto se stesso il proprio servizio.
“Io ho sempre voluto fare il soldato, fin da piccolo” ci dice. E nei suoi occhi leggi la soddisfazione di esserci riuscito e, ovviamente, di stare lì, con noi, a raccontarcelo.
Abbiamo voluto narrare la sua storia non solo per rendere onore a lui che l’ha vissuta, ma anche per renderlo a tutti quei soldati, di ogni nazione, che hanno perso la vita in missioni di pace come erano le sue.
Soldati che seppure in missione di pace sono morti solo perché nel mondo esistono ancora dei folli che ai valori della democrazia, del rispetto reciproco, della libertà individuale e del diritto di vivere e lavorare per crescere i propri figli sostituiscono ancora odio, violenze e sopraffazioni di ogni tipo.
E chissà se mai arriverà quel giorno in cui tutti, al mondo, capiranno che è solo con il dialogo che si risolvono le contese e i problemi e non con le guerre. Che sono sempre inutili e dannose per l’umanità.
Possibile che tanti secoli di storia non ce lo hanno ancora insegnato?