Il nuovo libro di Lirio Abbate che racconta i segreti del Boss latitante da decenni,“U siccu, Matteo Messina Denaro, l’ultimo capo dei capi” (Rizzoli, agosto 2020).
“U siccu” è il boss che ha mandato in soffitta bombe e lupare, pur avendo vissuto tutta la stagione terrorista agli ordini di Totò Riina nell’offensiva contro lo Stato, con attentati e stragi, nel biennio ’92-’93.
La sua strategia non prevede più separazioni tra illegalità e istituzioni economico-finanziarie, tra politica e crimine, tra amministrazione centrale e poteri occulti. Un cambiamento attuato già durante la lunga parentesi successiva alle stragi, quando dopo la cattura di Riina (gennaio 1993), Bernardo Provenzano ha governato Cosa Nostra siciliana nell’ombra e nel silenzio, fino al suo arresto del 2006.
Da quel giorno “U siccu” è diventato il Re.
Abbate mette in rilievo un dato, che si registra tra l’86 e l’87, gli anni del Maxiprocesso: la mafia fa confluire i suoi voti nelle liste elettorali dei socialisti e dei radicali di Pannella, non sentendosi più protetta da quei settori della Democrazia cristiana con cui era più abituata a “trattare”. A conferma, il 31 gennaio del 1992, la Cassazione conferma le condanne del Maxiprocesso. Cosa Nostra si sente abbandonata dai vecchi protettori, per cui si vendica. Vengono infatti uccisi il potente esattore Ignazio Salvo e l’eurodeputato andreottiano Salvo Lima.
Iniziamo la lettura di parti salienti del libro.
-da pag.30…””L’ esperto di opere d’arte. La passione per le donne di Matteo fa il paio con quella per l’ arte, peraltro condivisa con il padre. Probabilmente, come avremo modo di vedere, U siccu ha scelto nel 1993 come obiettivi i monumenti di Roma, Milano e Firenze sfogliando i libri di storia dell’ arte: colpire il patrimonio artistico significava puntare al cuore stesso del Paese. Già Francesco Messina Denaro (il padre) aveva capito il valore, simbolico e no, dei reperti archeologici. E così nel 1962 aveva dato ordine di rubare l’ Efebo dal municipio di Castelvetrano. La statuetta fu poi rivenduta a un ricettatore e, dopo varie leggendarie traversie, venne recuperata 6 anni dopo dalle forze dell’ ordine a conclusione di indagini che sono rimbalzate dagli Stati Uniti alla Svizzera, in Turchia e poi in Sicilia per arrivare infine a Foligno con un conflitto a fuoco che ha portato all’ arresto di 3 persone. (Di questo, me ne parlò il Ministro Plenipotenziario Rodolfo Siviero, che condusse all’ epoca l’indagine, con il quale ho avuto l’onore di collaborare negli anni ’70 e primi ’80. Decedette nel 1983. (https://www.attualita.it/notizie/cultura/ora-berlino-ci-restituisca-il-quadro-rubato-dai-nazisti-e-la-benemerita-azione-di-rodolfo-siviero-37344/). Una storia mai chiarita fino in fondo. L’ interesse della mafia trapanese e in particolare dei boss di Castelvetrano per l’ arte e l’ archeologia è stato raccontato da diversi collaboratori di giustizia.
Fare la guerra per poi fare la pace. Alla fine del 1991, durante una riunione presieduta da Riina, a cui partecipano tutti i capimafia siciliani, compreso Matteo Messina Denaro, viene decisa la nuova strategia: è guerra allo Stato. Durante questi incontri, come hanno ricostruito I magistrati, Riina fece presente che la pressione dello Stato contro Cosa nostra si era fatta più rilevante e che comunque vi erano segnali del fatto che le tradizionali alleanze non funzionavano più. L’ allora capo dei capi riassume con questa formula il programma: «Fate la guerra per poi fare la pace. È l’ inizio della stagione del terrore. Nei mesi successivi viene deciso di compiere attentati nei confronti di tutto ciò che è in qualche modo legato allo Stato: le poste, i tralicci dell’ Enel, le questure, le caserme dei carabinieri. Vengono danneggiate anche quattro sedi siciliane della DC. Secondo alcuni collaboratori di giustizia catanesi le azioni, per la prima volta nella storia della mafia, devono essere rivendicate con una sigla: quella della “Falange Armata”. Gli uomini del disonore mettono in calendario una sfilza di omicidi eccellenti: prima di tutto quelli che vengono considerati i traditori come Salvo Lima e Ignazio Salvo. Poi i nemici storici come Falcone. Di Paolo Borsellino, invece, non si parla ancora. Il 31 gennaio 1992, come previsto, la Cassazione conferma le condanne del primo grande processo a Cosa nostra. La reazione è immediata. il 12 marzo viene ucciso Salvo Lima. È un messaggio diretto ad Andreotti, che sarebbe dovuto giungere in Sicilia l’indomani per un comizio elettorale, e serve anche, secondo le dichiarazioni di Giovanni Brusca, per impedire, dato il rumore causato da quell’ omicidio eccellente, che il leader DC possa succedere a Francesco Cossiga al Quirinale. Falcone conosce quel linguaggio, sa interpretarlo, è in grado di capire quanto sta accadendo. E su «La Stampa» con cui ha iniziato a collaborare come editorialista, scrive: «Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola»””.
-da pag.92…””L’ archivio di Riina. Preso il capo dei capi. 14 gennaio 1993, prima mattina. Siamo a Palermo, in via Bernini, alle porte della città. Una telecamera piazzata dentro un furgone punta sul cancello di ingresso di un complesso residenziale. 15 gennaio, alle 8,52 una Citroen varca il cancello del residence e ne esce tre minuti dopo con a bordo Salvatore Riina, seduto sul lato del passeggero. Di Maggio lo riconosce subito. “Ultimo” e altri tre dei suoi uomini si lanciano sulla vettura, aprono contemporaneamente gli sportelli dell’ autista e del passeggero e afferrano Riina gettandolo a terra, sull’ asfalto.In una nota firmata dall’ allora Procuratore di Palermo, Gian Carlo Caselli, si legge: «Nelle ore successive all’ arresto di Riina, vari ufficiali dell’ Arma, in particolare del ROS, ebbero a manifestare che i vari luoghi di interesse per le indagini, in particolare il complesso immobiliare (di via Bernini), erano sotto costante ed attento controllo e che era assolutamente indispensabile, per non pregiudicare ulteriori importanti acquisizioni, che dovevano consentire di disarticolare la struttura economica e quella operativa facente capo a Riina, evitare ogni intervento immediato, o comunque affrettato». Richiesta accolta. È passato un anno dal giorno dell’ arresto di Riina. La squadra, ha raccontato La Barbera, ha portato via mobili, oggetti e documenti. E soprattutto ha svuotato la cassaforte in cui Riina conservava le carte che riguardavano gli affari di Cosa nostra. Dopo la rivelazione di La Barbera inizia un carteggio tra il Procuratore Caselli e il Generale del ROS Mario Mori. La Procura di Palermo, nel 2006, avvia un processo che vede imputati Ultimo e Mori per la mancata perquisizione, ma i PM sosterranno in aula che l’ abitazione dei Riina non è stata controllata nel nome di una superiore ragione di Stato. I due imputati vengono assolti.
A Matteo i documenti di Riina. I boss, all’ indomani dell’ arresto di Salvatore Riina, pensano che il capo dei capi sia stato «venduto» e che, pertanto, la perquisizione a casa sua fosse stata evitata per scongiurare il sequestro di carte compromettenti. Lo chiariscono, nella loro sentenza del 20 aprile 2018, i giudici del processo per la trattativa Stato-mafia, riportando le dichiarazioni dell’ ex mafioso Antonino Giuffrè. Se dunque Il latitante trapanese fosse in possesso dei documenti riservati del capo di Cosa nostra, avrebbe un potere immenso, non solo sui patrimoni, ma anche sulle collusioni politiche e imprenditoriali con cui Riina era in contatto.
L’inferno del carcere duro. Nel 1993, con Riina dietro le sbarre, Cosa nostra si trova di fronte a un problema grave: il 41bis. Alcuni mesi dopo la firma dei primi decreti che sanciscono il carcere duro il virus, però, non viene annientato. E in poco tempo si rigenera.Grazie anche a Matteo Messina Denaro, che insieme a Giuseppe Graviano pianifica una strategia d’ attacco. A riassumere come sono andate le cose è il Pubblico Ministero Vittorio Teresi. «La paura e l’ incompetenza hanno portato alcuni rappresentanti delle istituzioni a piegarsi al ricatto della mafia nell’ illusione che una attenuazione dell’ odiato 41 bis potesse far cessare le bombe e il piano criminale di devastazione di vite e obiettivi artistici ideato da Cosa nostra, mentre invece le concessioni hanno fatto riprendere la tracotanza mafiosa» ha detto durante la requisitoria del processo per la trattativa Stato-mafia. Cosa Nostra ha rilanciato con le bombe, ha spiegato Teresi, alludendo agli attentati nel continente, quando già i primi provvedimenti di attenuazione del carcere duro erano stati presi. Secondo lui, «alcuni esponenti delle istituzioni, impauriti o incapaci di reagire all’ eco delle stragi, hanno condiviso il metodo del dialogo infernale con la mafia fornendo copertura politica per quietare una certa parte di Cosa nostra […]».
Il Milan e la Formula Uno. Il Parlamento approva nel dicembre 2002 la stabilizzazione del 41 bis nell’ordinamento penitenziario. È così all’ indomani di Santo Stefano, l’ allora premier Silvio Berlusconi dichiara: «il 41 bis contiene una filosofia illiberale ma siamo stati costretti a adottarlo […]». Le nuove disposizioni previste per i detenuti sottoposti a questo carcere impermeabile rispetto agli anni precedenti sembrano una passeggiata. La nuova legge ha dunque introdotto alcune norme che hanno reso meno discrezionale la possibilità di togliere i mafiosi dal regime di 41 bis ed è stato concesso ai detenuti di godere di 4 ore d’ aria e di poter socializzare anche con cinque persone alla volta. A ventotto anni dalle stragi il 41 bis è diventato un tema sul quale si è creato un dibattito politico e giuridico, poiché si tratta di una norma che da una parte è essenziale nella strategia di contrasto alla criminalità organizzata, dall’ altra pone delicati problemi di compatibilità costituzionale e di interpretazione giurisprudenziale (anche se in gran parte risolti). Alla gestione dei detenuti al 41 bis e delle strutture in cui si trovano è stata dedicata prima del Natale 2019 una riunione alla Procura Nazionale Antimafia, alla quale hanno partecipato tutti i Procuratori Distrettuali e i vertici del DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). Ne è venuto fuori un quadro non confortante: il capo dei PM di Messina, Maurizio De Lucia, ha evidenziato la carenza di strutture adeguate e di risorse specializzate. Non c’è un numero sufficiente di celle per tutti i detenuti sottoposti al carcere duro, che non è un’ulteriore pena afflittiva, ma uno strumento di tutela della collettività che evita ai boss di continuare a comandare. Il problema, come ha evidenziato il Procuratore di Napoli, Gianni Melillo, è che se il DAP può realisticamente sopportare appena la metà degli attuali detenuti al 41 bis, vuol dire che rinuncia all’effettività dei controlli e all’effettività di «impermeabilizzare» i detenuti che vi sono sottoposti””.
-da pag.142…””Mafia Connection. Oltre che alle donne, bisogna però pensare anche agli affari. E Matteo Messina Denaro ci sa fare su entrambi i fronti. Riina lo definisce «l’affarista». «La mafia trapanese» ha spiegato ai magistrati l’ ex capomafia Giuffrè «è la più forte, ed è un punto di incontro tra i Paesi arabi, l’America e la massoneria». Boss con il cappuccio Gaetano Buscemi, come pure Mariano Agate, Vito Di Giorgi e Giovanni Bastone, secondo quanto affermano gli investigatori negli atti giudiziari, erano iscritti a logge massoniche. D’ altronde, a Trapani lo sono in molti: la città del sale e del vento è la culla dei cappuccioni con il grembiule, delle logge non dichiarate, i cui affiliati appoggiano i boss nelle loro azioni criminali e a Matteo offrono il loro il braccio e loro bacio.Occorre puntare, come ha fatto la Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi, sull’ analisi del cambiamento delle mafie – di cui è artefice e parte integrante Matteo Messina Denaro – e del loro nuovo approccio operativo, basato prevalentemente su modalità collusive e corruttive. La commissione Bindi, che aveva come consulente il Magistrato Marzia Sabella, ha lavorato su questo punto e dall’attività istruttoria è emerso come le associazioni criminali di stampo mafioso – o, comunque, le più pericolose quali Cosa nostra e ‘ndrangheta – «da tempo immemorabile e costantemente fino ad adesso, nutrono e coltivano un accentuato interesse nei confronti della massoneria». Ciò nonostante, come ha scritto la Commissione antimafia nella sua relazione, da parte delle logge massoniche, «si è registrata una sorta di “tolleranza” – frutto di un generalizzato negazionismo dell’ infiltrazione mafiosa, magari volto a salvaguardare il prestigio internazionale dell’associazione massonica o le sue fondamentali regole di segretezza -.””
-da pag.215…””Puntare sul verde. Il re dell’ eolico. I «pali della luce», così li chiamava in carcere Salvatore Riina, riferendosi alle pale eoliche che punteggiavano ogni angolo della provincia di Trapani, la città del vento. Al capo dei capi però non interessavano le energie alternative, il suo cruccio era piuttosto che «l’affarista» Matteo Messina Denaro avesse permesso all’ imprenditore Vito Nicastri, originario di Alcamo, condannato a 9 anni nell’ottobre 2019 per concorso esterno in associazione mafiosa, di piantarli praticamente ovunque. Sono gli anni dell’esplosione dell’ energia verde, e quello dell’eolico è un settore che corre. Le speculazioni di Nicastri, realizzate su vasti appezzamenti di terreni a destinazione agricola con il contributo, e in favore, di appartenenti ai clan vicini a ‘U siccu’, comportano ingenti guadagni. Che in parte sono destinati al circuito dell’ associazione che fa capo proprio al latitante di Castelvetrano. Nicastri ha un lungo curriculum giudiziario, che va dalla condanna per corruzione e truffa aggravata, relativa a iniziative imprenditoriali risalenti agli inizi degli anni 2000 proprio nel settore delle energie rinnovabili, fino all’applicazione del 2013 della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, seguita alla confisca di beni che fanno parte di un patrimonio miliardario. Per finire con la sentenza che gli è costata una pena a 9 anni per mafia, quella appunto del 2019. Probabilmente con l’ aiuto ricevuto dalla mafia, Nicastri è riuscito a mettere in piedi un impero economico. Ma, dopo la condanna definitiva per corruzione e truffa, la misura di prevenzione con tanto di sequestro di capitali milionari e l’ arresto, è ormai bruciato: non può più agire in prima persona. Gli serve un socio, una testa di legno. Ed è qui che emerge il nome di Paolo Arata, ex deputato di Forza Italia, esperto di ambiente ed energia, che dagli «azzurri» passa alle casacche verdi della Lega e nel 2015 si sposta dalla Liguria, di cui è originario, in Sicilia per creare una società nel settore dell’ energia rinnovabile con Nicastri, da lui considerato «la persona più brava dell’eolico in Italia». Nei giorni cruciali per la formazione del governo, Paolo Arata sosteneva di aver avuto un ruolo determinante per la nomina del Senatore della Lega Armando Siri a Sottosegretario alle Infrastrutture nel Conte I. Si vantava di averne parlato direttamente con Salvini. Armando Siri, l’ uomo scelto dal leader felpato come responsabile economico del suo partito (“Noi Con Salvini”, fondato per creare proseliti leghisti nel Centro e Sud Italia), ha patteggiato nel 2014 una pena con i giudici del Tribunale di Milano per il crac di una società che ha lasciato debiti per oltre un milione di euro. È a questo politico di Genova, giornalista, che vanta un passato nella gioventù socialista e un’amicizia personale con Bettino Craxi, che il capo del Carroccio aveva affidato il compito di ridisegnare il sistema fiscale italiano: Siri è infatti il l’ideologo della flattax, l’aliquota unica al 15 per cento, la «tassa piatta» che nelle speranze dei leghisti doveva rivitalizzare l’economia italiana senza mandare a picco i conti pubblici. E fra i tanti nuovi incarichi che Giorgetti assegna, c’è anche una poltrona per il figlio di Arata, Federico, il quale firma un contratto di consulenza al Dipartimento programmazione economica di Palazzo Chigi in qualità di «esperto». A Palermo il Procuratore aggiunto Paolo Guido prosegue l’ inchiesta sul socio di Arata senior, Vito Nicastri, che nel giro di alcuni mesi viene processato e poi condannato con il rito abbreviato. L’imprenditore, come raccontano i collaboratori di giustizia che hanno riempito verbali di dichiarazioni ai PM, sarebbe tra i finanziatori della latitanza di Matteo Messina Denaro.””
Sin qui la lettura di parti del libro. Ora come di consueto integrazioni e valutazioni.
A febbraio del 1992, inizia a Milano l’inchiesta Mani Pulite. Ma che relazione c’è tra le due cose? Nel gennaio del 2020, ricorda ancora Abbate, in una clamorosa intervista a “L’Espresso”, l’ ex PM Antonio Di Pietro dichiara a Susanna Turco: «Mani Pulite è una storia che andrebbe riscritta. Mani Pulite non l’ho scoperta io: nasce dall’esito dell’inchiesta del Maxiprocesso di Palermo, quando Falcone riceve riservatamente dal pentito Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia. Raul Gardini non si suicida così, per disperazione, il 23 luglio del 1993: si suicida perché sa che quella mattina, venendo da me, doveva fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire». Michele Sindona, Roberto Calvi, Raul Gardini, tre casi clamorosi di alta finanza internazionale finiti poi in odor di mafia.
Concludiamo, evidenziando un evento importante che onora Giovanni Falcone. Dal 12 al 16 ottobre, le sedi ONU presenti a Vienna hanno ospitato la Conferenza degli Stati aderenti alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale – l’UNTOC, in cui è stata approvata all’unanimità la risoluzione italiana presentata nella capitale austriaca durante la quattro giorni della Conferenza delle Parti sulla Convenzione Onu contro la criminalità transnazionale. È il primo atto di questo genere che valorizza il contributo di una singola grande personalità, Giovanni Falcone, e le sue straordinarie intuizioni e capacità investigative. È il sogno che si avvera del grande Giudice siciliano che, già negli anni Ottanta, aveva compreso il rischio che la criminalità organizzata diventasse un problema globale ma non aveva gli strumenti legislativi perché non c’era una norma che prevedesse l’impegno corale degli Stati. La risoluzione è nota come la «Convenzione di Palermo», ratificata nel 2000, che fu il primo strumento legislativo contro la criminalità organizzata transnazionale. È stato l’unico strumento legalmente vincolante a livello mondiale. Proprio Falcone aveva intuito — grazie anche al lavoro del vicequestore Boris Giuliano, poi ucciso dal boss Leoluca Bagarella — che più che le persone bisognava seguire il fiume di denaro «sporco» che generavano e il suo «follow the money» è diventata la pietra miliare di tutte le indagini in tema di malaffare nel mondo. “Giovanni Falcone credeva fermamente nella necessità di creare un fronte comune, una mobilitazione mondiale contro le mafie. Al centro della sua visione c’è sempre stata la necessità di investire sulla cooperazione internazionale nel contrasto al crimine organizzato”. Lo dice Maria Falcone, Presidente della Fondazione Falcone e sorella del Magistrato, commentando l’approvazione all’unanimità da 190 nazioni della risoluzione italiana.
Di questo rendiamo idealmente omaggio a questo Eroe italiano, del quale noi Italiani onesti siamo tutti orgogliosi!